“Shelter”, storia di un’identità

 

Shelter è una coproduzione italo-francese del regista (e ricercatore in Scienze pedagogiche) bolognese Enrico Masi prodotta da Caucaso Film e Ligne 7 in collaborazione con Rai Cinema e Manufactory Production. È inoltre il capitolo finale di una trilogia iniziata nel 2012, dedicata all’impatto dei “Mega Eventi” i cui temi centrali sono l’identità, le frontiere, il paesaggio e il corpo in transizione. Shelter infatti racconta la storia straordinaria di Pepsi, militante transessuale e musulmana nata nel Sud delle Filippine, che rincorre il diritto universale alla propria identità, muovendosi fuori e dentro le frontiere di una terra, l’Europa, attraversata da un conflitto silente: quello con la movimentazione “disordinata” di esseri umani che tentano di accedere ai suoi confini.

Shelter è un rifugio, un riparo un’opera chiusa come una scatola inaccessibile in cui si prova a raccontare l’identità di questa persona, senza però mai svelarla. È un’opera che muovendo dal personale aspira all’universale, dal ritratto di volto ignoto assurge a mito. È così che il film è costruito in una successione di campi vuoti che segnano un accento critico sul non-luogo urbano, e suggeriscono invece, di pari passo con alcune parole della protagonista, un salvifico ritorno alla foresta come unico luogo popolato da “persone buone”, rispetto alla cattiveria registrata nelle città occidentali dove “il vero animale è l’uomo che distrugge le montagne e uccide le persone”. È la voce della protagonista a guidarci nella narrazione del suo racconto di vita, tra immagini di paesaggi desolati, gregge al pascolo, verdura incolta intervallate da altre di ponti, treni in cosa, metropoli inanimate. Pepsi ha cambiato 7 nomi e l’unico che non ha mai usato è il suo. Ha lavorato in Libia come infermiera, finché l’affermazione dell’Isis non l’ha costretta a fuggire in Europa per l’impossibilità di conciliare “nella stessa scatola” le sue due realtà, l’essere gay e musulmana. Come ha affermato il regista: “Il suo cammino diventa un sussulto, un’emanazione del conflitto post-coloniale che si trasferisce, grazie alle sue richieste di riconoscimento identitario, nella decadenza lenta e inesorabile di un grande impero occidentale, in cui nuove culture mondiali penetrano e si assimilano”. 

Durante l’ora e venti di documentario costruito con una sapienza fotografica antonioniana (da un totale di 90 ore di girato, oltre a materiale d’archivio e pellicole in super 8 e 16mm) è il paesaggio il vero protagonista, il paesaggio a denunciare l’assenza dell’”essere” umano in quegli spazi, ai confini della città, dove si accucciano disperati gli emarginati dell’accoglienza. Ammassati in bivacchi sotto i ponti affollati, o radunati intorno a fuochi di notte, aspettano di saltare su camion o treni in corsa per varcare il confine con il volto coperto come ninja. Perché dovrebbero restare in Italia poi? Per elemosinare pasti gratis  alla Caritas? Shelter è l’unico luogo sicuro in cui custodire la storia di Pepsi, il suo viaggio incredibile dalla Libia all’Europa e poi dal Nord Italia attraverso le Alpi Marittime fino a Parigi. Pepsi è davvero un’anima e “un corpo in transito nell’Europa di oggi” che ha scommesso di superare con la sua vita ogni genere di confine, fisico, corporeo e non.

E ha vinto infine, quando soddisfatta esibisce il suo documento di soggiorno alla telecamera. Quel documento, per lei, è tutto. Può accettare di perdere ogni cosa, ma non la sua nuova identità, che, di notte, tiene stretta intorno al braccio con lo scotch, per non rischiare di smarrirla ancora.

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