Un limpido miraggio: “Florida” di Philippe Le Guay

A proposito di Florida (in programmazione al cinema Lumière) di Philippe Le Guay, potremmo dire che sia la storia di un viaggio, come ingannevolmente vuole suggerire il titolo del film, benché si tratti di un viaggio che si sviluppa in un’unica dimensione, quella del tempo o della memoria, che non c’è più. Il movimento nello spazio è solo apparente infatti e potrebbe appartenere ai vaneggiamenti del protagonista, un anziano ottantenne, alle prese con un principio di demenza senile. Tratto dal romanzo Il padre di Florian Zeller, questo gioiellino di cinema francese, un cinema capace di trattare temi ostili con un tono quasi confidenziale, ci regala un’ immensa interpretazione della vecchiaia e della violenza sommessa con cui può essere subita, grazie alla superba prova dell’attore Jean Rochefort accompagnata dalla composta dolcezza di Sandrine Kiberlain, nei panni di sua figlia.

Il film racconta il dramma di una famiglia alle prese con i mille problemi creati da un anziano non più autosufficiente, sondando tutte le sfaccettature del tema, dalla difficoltà di accettare l’aiuto di estranei, vista come una invasione del privato, al tabù del sesso anche solo “parlato” o “visto” da un anziano, fino al terribile senso di colpa dei figli, costretti spesso, per tornare alle loro vite, ad “abbandonare” i propri cari in strutture debitamente attrezzate.

Philippe Le Guay aveva già firmato Le donne del sesto piano e Moliére in bicicletta, trasmettendoci tutto il suo amore per il teatro e per le storie che prendono corpo grazie alla loro incarnazione negli attori. Anche qui Jean Rochefort, è il perno intorno a cui si sviluppa l’azione, lo spettatore è costretto ad immedesimarsi nella sua condizione ed è portato per mano nella confusione della vecchiaia che cancella dati di memoria. Un montaggio sapiente e attento ci conduce sempre più addentro alla storia, che inizialmente pare scontata, e se non lo è del tutto, è solo grazie a questo continuo andare e venire di scene, situazioni, location, flash back, che, come delle perline, siamo invitati poco a poco ad infilare una dietro all’altra per carpirne il senso e la traiettoria. A condurci, il guizzo vivace degli occhi azzurri e limpidi di Rochefort, che prima si illumina e poi d’un tratto si spegne, sotto le nebbie della cavalcante demenza.

Come un eroe shakespeariano il protagonista si aggira per il suo regno perduto, con tutta la rabbia di rivalsa che è propria di un re a cui è stato rubato ingiustamente il trono. E tutto il sommesso dolore, che, a tratti, si riversa in un catartico humor nero (come quando il protagonista si ingegna per far sloggiare dal suo loculo al cimitero un vicino non gradito, o aggredisce il fidanzato della figlia), col sapore di un cinefilo omaggio alle black comedy di cui Rochefort fu interprete memorabile.

Una guerra contro i mulini a vento, quella di Don Quixote / Rochefort contro il progredire della malattia che lo sottrae a sé stesso ed all’amore dei propri cari, privandolo del suo posto nel mondo, della sua memoria. E’ così che il protagonista forse si arrende, preferendo rifugiarsi nello spazio di un tempo che non è più, e continuando a proiettare d’avanti a sé l’immagine di una figlia attesa e perduta, il miraggio di una Florida assolata così bella perché “ci sono anche i banani”.

Francesca Divella

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