ISI but not easy

L’opera prima del regista Andrea Magnani, acclamato film-rivelazione del Festival di Locarno, è approdata nelle sale italiane dal 31 agosto. Easy – Un viaggio facile facile narra le vicissitudini, piuttosto surreali, di un viaggio non proprio facile a dire il vero, intrapreso dall’ex pilota di go-cart Isidoro (detto appunto Easy) verso l’Ucraina, per quello che potremmo definire un trasporto “eccezionale”. L’originale compagno di viaggio di Easy, infatti, è l’operaio defunto nel cantiere di suo fratello Libero di Rienzo, o meglio la bara in cui egli è sigillato.

Una inconsueta coproduzione Italia – Ucraina, che vede la collaborazione delle italiane Pilgrim e Bartlebyfilm (con il contributo di Mibact, del Fondo per l’Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia e della Ukrainian State Film Agency) con l’ucraina Fresh Production. La pellicola ruota attorno al personaggio di Isidoro (un bravissimo Nicola Nocella, Nastro d’Argento nel 2010 per Il figlio più piccolo di P. Avati): 35 anni, molti chili di troppo e “diagnosticamente depresso”, come egli stesso ci tiene a puntualizzare per giustificare la sua inedia esistenziale. Vive ancora con la madre (Barbara Bouchet), preoccupata principalmente dalla sua dieta dimagrante, dorme in un letto a forma di una monoposto di F1, e passa le giornate davanti alla Playstation.

Giornate lente, immobili, tutte uguali, trascorse ad ingozzarsi di psicofarmaci e meditando il suicidio. All’improvviso qualcosa cambia: il fratello maggiore Filippo (Libero De Rienzo), imprenditore edile, gli chiede il favore di riportare a casa lo sfortunato operaio Taràs, morto per un incidente sul lavoro (in dubbie circostanze) trasportando la sua bara fino in Ucraina. Niente di complicato, apparentemente, se non fosse che il lungo viaggio attraverso i Carpazi si rivela davvero insidioso.

Partendo da uno spunto narrativo originale e spassoso, il film dipana la sua trama di road movie, con un ritmo lento e mai incalzante, che, a nostro avviso, penalizza alquanto l’intenzione di divertire lo spettatore. La risata, si sa, ha tempi rapidi, e così come in un attimo può accendersi, se non è accompagnata nell’istante successivo da una nuova battuta o situazione comica altrettanto forte (se non di più), rischia di bloccarsi nell’osservazione sterile di se stessa o nell’attesa frustrata dello spettatore. Easy è un film che diverte, ma solo a tratti.

La nostra sensazione è che, molto più forte della trama o della trovata comica iniziale, sia l’urgenza fotografica del giovane regista. Il film è godibile, nonostante alcune incoerenze narrative (spesso non capiamo come abbia fatto Easy a recuperare la bara dall’ultimo luogo assurdo in cui l’aveva persa), grazie alla bellezza delle immagini che ci propone come diapositive di un mondo sconosciuto eppure così vicino ad essere Europa. L’inverno rigido della steppa ucraina, gli abiti tradizionali degli autoctoni, i fiumi e gli orizzonti sterminati, la solitudine del protagonista immortalata nei suoi monologhi con il feretro. I campi lunghi o totali subito seguiti da gustosi particolari: il dettaglio della cenere che sta in bilico sulla punta della sigaretta (prima inquadratura del film), o il filo della zincatura della bara che si scioglie, la mela rossa “dietetica” che campeggia da sola in cima al pattume, o il poliziotto in ciabatte e calzini bianchi di spugna.

Easy non è un film di parola, per tutta la sua durata le poche parole pronunciate dal protagonista in italiano risultano incomprensibili per gli oriundi di un paese che si esprime in ucraino e legge/scrive in cirillico. Gustosa infatti è la trovata della App del traduttore istantaneo, che si inserisce nella trama quasi come personaggio a sé stante del film. Il dialogo non esiste. Esistono solo i monologhi di Easy alla bara (e sono i rari momenti in cui scopriamo qualcosa di più sul protagonista), di Easy al telefono col fratello che non lo ascolta, non lo comprende, o dei personaggi che incontra nel cammino, il sacerdote che vuol diventare rockstar, la figlia di Taràs, il vecchio del calesse, la donna che lo accoglie: tutti intenti a dirgli qualcosa di incomprensibile per lui.

Il pregio di Easy è sicuramente riscontrabile nella sua cifra costitutiva: essere un insolito road movie girato ammiccando al glorioso cinemascope dei grandi western, e intriso di uno humor nero che piacerebbe a Kaurismaki e che ci riporta al registro farsesco di Kusturica. Il lungo viaggio tra i Carpazi assurge al significato simbolico di una emigrazione al contrario: Easy siamo noi, siamo noi i “disadattati” che viaggeranno verso l’Est per ritrovare la nostra perduta umanità, una nuova possibilità di vita, un’esistenza liberata dalla schiavitù dell’ansia da prestazione generata dalla fabbrica del successo occidentale. Il suo maggior difetto è probabilmente che si tratti di un film più bello da scrivere che da guardare.

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