Bohemian Rhapsody e l’inimitabilità di Mercury

Brian May annunciò il progetto di un film sulla vita di Freddie Mercury e sull’epopea dei Queen già nel 2010: la sceneggiatura sarebbe stata affidata a Peter Morgan (collaboratore di Ron Howard e Stephen Frears), e l’arduo compito di impersonare Mercury all’attore inglese Sacha B. Cohen. Tuttavia, nel luglio 2013 Cohen affermò di aver rinunciato alla parte a causa di divergenze artistiche con i membri della band. In un’intervista radiofonica poi Cohen rivelò che nelle intenzioni originarie di May si sarebbe voluto girare un film in cui il protagonista moriva di AIDS nella prima metà e la seconda parte mostrava come i Queen andavano avanti da soli. Ma poiché, secondo Cohen, nessuno avrebbe voluto vedere questo film abbandonò il progetto.

Durante la lunghissima gestazione del film si sono susseguiti numerosi cambi di copione, passaggi di consegne nel casting, persino l’abbandono finale dello stesso regista Bryan Singer: a chiudere l’opera interviene Dexter Fletcher nonostante non appaia nei credits. Difficilmente da una gestazione così travagliata nasce un prodotto che funziona: e la visione di Bohemian Rhapsody oggi conferma purtroppo questo assunto.

Il film ripercorre per sommi capi l’intera biografia e la carriera sfavillante di Freddie Mercury alias Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar in una famiglia parsi, dal 1970, anno della fondazione della band, fino al concerto del Live Aid a Wembley nel 1985. Un uomo salito nell’olimpo delle divinità rock del XX secolo, grazie alla sua favolosa estensione vocale (la cantante lirica Monserrat Caballé confermò la tesi delle quattro ottave, affermando che la sua voce si estendeva dal fa della prima ottava al fa della quinta), ad una padronanza straordinaria del palco e ad una serie di intuizioni geniali nella composizione e performance musicale. Come risponde il film di Bryan Singer all’ambiziosa sfida di far rivivere nel racconto cinematografico un personaggio di tale caratura artistica e umana?

Sicuramente con un atteggiamento non imparziale (Freddie divinizzato e la band legittimata come famiglia d’elezione della star) e non filologico, soprattutto nella ricostruzione di alcune vicende private della star, nella rappresentazione della sua complicata personalità, nei rapporti con gli altri membri del gruppo, con il manager e amante/lupo cattivo Paul Prenter o nella restituzione di una sessualità ricca di numerose sfumature, da una non ben definita omosessualità ad una conclamata tendenza bisessuale, resa con un accento forse troppo spiccato su una sorta di travestitismo queer.

Il dato certo è che l’ingombrante protesi dentaria, indossata da Rami Malek per completare la sua metamorfosi in Freddie Mercury, non aiuta a dimenticare il tentativo di clonazione, ma diventa invece un fastidioso dettaglio che fa precipitare la sua interpretazione in una infelice caricatura. Così nonostante sia lodevole il dato di una raggiunta immedesimazione fisica nel grande performer, nelle movenze, negli scatti sul palco, nella gestualità pomposa, non altrettanto possiamo rilevare nella mimica facciale o nell’espressività del volto di Malek, irrimediabilmente intralciata dai “denti di Freddie”. Per tutta la visione del film il paradosso della inadeguatezza del protagonista si scontra con il desiderio fandom di lasciarsi coinvolgere dalla storia, e nonostante le interpretazioni al limite dell’imitazione degli altri Queen (Ben Hardy un azzeccatissimo Roger Taylor, Joseph Mazzello/John Deacon, Gwilym Lee un vero e proprio “sosia” di Brian May) e la musica coinvolgente della storica band, l’effetto è irrimediabilmente straniante.

Unico momento del film in cui questo conflitto interno tra il vero Freddie e il fantoccio costruito per l’occasione trova una temporanea risoluzione è la scena finale del Live at Wembley. In questi ultimi 20 minuti Bohemian Rhapsody riesce a trovare il giusto equilibrio tra celebrazione di un mito, memoria e restituzione storica della sua consacrazione. In questa parte del film Malek supera sé stesso in una mimesi corporea al limite dell’identificazione totale con il compianto Mercury (complici le riprese a figura intera e i pochissimi primi piani), e anche le immagini dall’alto della folla impazzita, e delle maestranze esultanti di fronte allo spettacolo unico regalato dai Queen, rendono in modo sorprendente l’atmosfera di esaltazione globale che realmente respirarono i protagonisti di quel concerto. Forse anche merito del fatto che le scene cantate sono state girate utilizzando i master originali del gruppo insieme alla voce di Marc Martel, cantante canadese capace di imitare alla perfezione il timbro di Freddie.

Ad ogni modo se dovessimo suggerire a un fan dei Queen un film sulla band più eccentrica ed ineguagliabile del panorama rock internazionale, la scelta non cadrebbe su questo Bohemian Rhapsody, ma piuttosto sul bellissimo ed emozionante documentario del 2016 A Night in Bohemia prodotto dai Queen per la regia di Tom Corcoran. Perché pensiamo che, in casi rari come quello di Freddie Mercury, l’originale sia sempre di molto superiore a qualsivoglia imitazione.

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