“Bangla” e come scavalcare uno stereotipo

Phaim (Phaim Bhuiyan) ha 22 anni, è nato in Italia da genitori bengalesi, ma solo a 18 ha “vinto” la cittadinanza italiana compilando un modulo. Vive da sempre nel quartiere romano di Tor Pignattara e trascorre il tempo tra famiglia (padre sognatore, madre tradizionalista, e sorella in odore di nozze combinate), lavoro (fa lo steward in un museo), e musica (suona un genere falk bangla ai matrimoni con una band di amici). Una sera incontra Asia (Carlotta Antonelli), una giovane ragazza romana coi capelli blu e se ne innamora perdutamente. Da questo momento in poi la sua vita non sarà più la stessa. Phaim sarà costretto a scegliere tra i dictat del suo credo religioso, le spinte centrifughe della sua famiglia (che preme per abbandonare l’Italia per la Gran Bretagna) e i più profondi sentimenti del suo giovane cuore.

Che cosa è uno stereotipo? Per gli psicologi rientra in questa definizione qualunque opinione precostituita e generalizzata su persone o gruppi sociali priva di un riscontro basato sull’esperienza diretta. Phaim Bhuiyan, regista (attore e sceneggiatore) ventiduenne al suo esordio cinematografico con Bangla (distribuzione Fandango) ha avuto una fulminea intuizione: portare il suo stereotipo (quello del figlio di immigrati che cerca di integrarsi con la cultura del Paese ospitante) sul grande schermo, in modo autobiografico, e scavalcarlo, o domarlo a seconda dei punti di vista, attraverso l’uso di un linguaggio cinematografico e di uno slang giovanile che lo riafferma, incorporando in sé stesso la sua medesima matrice popolare.

Con una operazione molto simile (da un punto di vista sociologico e di comunicazione della propria immagine) a quella eseguita dal ghanese youtuber Bello FiGo, con la “hit” Non pago Affitto, Phaim Bhuiyan ingloba nella sua auto-rappresentazione l’intero catalogo delle amenità che vengono attribuite a lui e alla sua gente dagli stereotipi calcificati nelle menti degli italiani, e nei primi 5 minuti del film afferma con ironia “anche se mi vedete un po’ negro in realtà so’ italiano [con un accento spiccatamente romano], diciamo più una via de mezzo tipo cappuccino 50% Bangla 50% Italia e 100% Torpigna… siamo noi la zona di frontiera…Torpigna ultimamente va molto di moda soprattutto quando si parla di negri e immigrazione, e c’è tanta gente, senti odore di lasagne, curry, kebab tutti insieme è un’esperienza psichedelica”.

Con un montaggio scattante e riprese “fantasiose” (movimenti di macchina vivaci, zoom in avanti, zoom indietro, prospettive dal basso, dall’alto, rewind, flashforward etc etc) anche la visione di Bangla può rivelarsi psichedelica a tratti, complice l’animato uso del colore che restituisce all’opera una intensità pittorica ed un espressionismo cromatico tipicamente “indiano”. L’intero esperimento del film a noi pare dunque perfettamente riuscito, poiché il suo autore, con spontanea bravura, riesce a compiere un’impresa nient’affatto scontata: girare una commedia focalizzata sul tema dell’integrazione, anzi, dell’interculturalità come valore, rivolgendola ad un vasto pubblico di italiani, italo/bangla, giovani con auspicabili aperture al nuovo e vecchi che “non ci capiscono più un cazzo, si lamentano di tutto, ma non è per razzismo è più per una cosa d’abitudine, come il fatto che non usano wapp e guardano solo Rai Uno. So’ vecchi non è colpa loro”.

Qualcuno ha paragonato Phaim Bhuiyan al primo Moretti, qualcun altro addirittura a Troisi noi lo troviamo senz’altro molto vicino ad un filone di certo cinema comico popolare anni ‘80 a metà strada fra i film che contribuirono ad abbattere lo stereotipo del “meridionale” trapiantato al nord attraverso la sua definitiva consacrazione (pensiamo a film come Eccezzziunale… veramente, con il terrone Abatantuono sfegatato capo degli ultrà milanisti) ed altre tipiche commedie romantiche a lieto fine in stile Moccia/Mucciniano.

Unica grande differenza, non da poco, con queste ultime è che qui non sono i “matusa” a fregiarsi del ruolo di narratori di una età che non gli appartiene, ma è dall’io di un ventiduenne italo-bengalese che vediamo dipanarsi il racconto di una età incerta ricca di dilemmi, e di un’identità geografica meticcia, alle prese con un importantissimo ruolo di involontario mediatore culturale, ponte fra popoli, “puzze” (la puzza della cameretta del protagonista al mattino, la puzza di maiale emanata dalle donne italiane) e nuove identità.

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