“Il giorno e la notte” e la scommessa del cinema a distanza

Il giorno e la notte, il nuovo film di Daniele Vicari, prodotto tra marzo e maggio 2020 durante (e nonostante) il lockdown, il distanziamento sociale, le mascherine e la paura del contagio non è solo o semplicemente un film, è una vera e propria proposta culturale che esplora il rapporto tra cinema e realtà, in un momento storico in cui il flusso di questa relazione era stato drasticamente interrotto, sia in senso produttivo che di fruizione.

Il giorno e la notte è un film “realista” nel midollo, essendo stato concepito come film homemade nel quale, per la prima volta nella storia, a causa delle restrizioni in atto, il regista coordina il lavoro degli attori che “da casa loro” non si limitano a recitare la loro parte ma fanno anche da fonici, operatori, truccatori di sé stessi. In una situazione unica e irripetibile in cui tutti i mestieri del cinema, pur di essere agiti, trovano una declinazione casalinga, dando luogo ad una sorta di “smart working del cinema”, il regista diventa il sommo burattinaio che tira le fila dell’operazione innovativa messa in atto, amministrando a distanza le riprese fatte dai dispositivi personali di ciascun attore. Di più: dei nove personaggi al centro della trama (una trama corale) ben sei costituiscono coppie di fatto anche nella realtà, espediente indispensabile per spezzare l’isolamento sul set e vedere interagire nel film coppie di attori “congiunti” anche nella vita vera (si tratta di Vinicio Marchioni e Milena Mancini, Dario Aita ed Elena Gigliotti, Barbara Esposito e Francesco Acquaroli). Giocano da soli invece e da soli gestiscono interamente il loro set Giordano de Plano, Matteo Martari e la travolgente Isabella Ragonese.

La trama ruota intorno all’essenza della situazione pandemica: da un momento all’altro, ossia dal giorno alla notte, i tiggì a reti unificate annunciano che è in corso un misterioso attentato chimico contro la capitale romana. Il Governo invita la popolazione a serrarsi dentro le proprie abitazioni fino a nuovo ordine: nessuno esca di casa. E mentre le strade si svuotano e il traffico scompare, si delineano le storie intime di quattro coppie costrette a confrontarsi con i loro malesseri, le incomprensioni, i silenzi, o le parole di troppo, amori giunti al capolinea o altri colti sul nascere. La scelta di decontestualizzare la necessità della chiusura, evitando il riferimento diretto alla pandemia da Covid e ipotizzando un attentato, è probabilmente un tentativo di allontanare lo sguardo dall’attualità più stringente, per focalizzarsi unicamente sugli effetti dell’isolamento forzato. Cosa accade alle coppie se costrette dentro le pareti domestiche, senza possibilità di fuga?

Effetti sociali e sintomi psicologici, di coppie messe alle strette da una convivenza forzata che spesso si è tradotta in implosioni, quando non in nuovi incontri e riscoperte al chiuso delle proprie consunte intimità. In questa opera genuina Vicari ristabilisce un rapporto autentico con il cinema “inteso come mestiere e saper fare” un cinema che ha in primis l’obiettivo di incontrarsi con il suo pubblico, un pubblico di gente “asserragliata nelle proprie abitazioni” proprio come i protagonisti del film, in un gioco di specchi capace di dare voce ad una nuova soggettività. Una soggettività che (come descritto dal regista stesso in un saggio predittivo uscito su Allegoria nel 2008 dal titolo “Il reale è razionale”) “manipola il proprio corpo attraverso la tecnica per potersi finalmente riappropriare dei sentimenti e delle passioni; e si compie un percorso che di quella tecnica ha ben poco, perché appartiene all’essenza stessa dell’umano e aderisce alle sue aspirazioni più intime e profonde”.

Un nuovo realismo quindi quello del regista che agisce “sui corpi di uomini e donne disposti a rompere lo specchio distorcente della propria immagine, per tornare a riappropriarsi di sé” – ancora Vicari nel suo saggio – su corpi e immagini attoriali, aggiungiamo noi, portati alla ribalta grazie alle nuove tecnologie (smartphone, videocall, conferenze web). Ne Il giorno e la notte più che mai torna ad essere fondamentale il compito del regista che assurge al ruolo antico di narratore e si assume tutto il rischio di “inventare il vero”, nonostante la fatica che ciò comporta, già esplicitata da Fellini quando diceva che “un film non è altro che la degenerazione continua ed inesorabile dell’idea originaria”. Mai come in questa operazione filmica una definizione fu più calzante: il regista opera come un maieuta “folle” tentando di dare un senso ultimo a questa degenerazione, ma, nonostante questo, “la sua volontà individuale è solo una componente della grande macchina produttiva”, messa in piedi dai nove “attori in cerca di autore”, e a tratti, anche di sceneggiatore, se consideriamo la grande libertà di improvvisazione sul testo appositamente concessa da Vicari (e dal bravissimo sceneggiatore Andrea Cedrola) ai suoi interpreti per la gran parte in stato di grazia.

Il cinema di Vicari si riconferma con Il giorno e la notte un film di ricerca espressiva, capace qui di misurarsi con la storia e con la realtà sociale e di riportare il medium all’interno del suo stesso messaggio. Il giorno e la notte ha il grande potere di portare sul grande schermo un cambiamento, che in maniera circolare coinvolge in primis gli attori e la produzione per poi ricadere ugualmente efficace anche sul suo pubblico, compartecipe di questa inverosimile immobilizzazione subita, nel tempo e nello spazio, da un’intera platea umana. I sentimenti catturati dal film ci fanno tornare alla mente alcuni versi di una lirica di Montale, Giorno e notte appunto, che si sviluppava proprio sul tema della desolata condizione dell’individuo in attesa di una rivelazione, mentre continua ad affondare, e che recitavano pressappoco così: “sempre questa dura/ fatica di affondare per risorgere eguali/ da secoli, o da istanti, d’incubi che non possono/ ritrovare la luce dei tuoi occhi nell’antro/ incandescente”. Versi e film con lo stesso commovente merito di aver dato voce a un’attesa, a una sospensione che, prima della pandemia, forse ci era sconosciuta.