“Filumena Marturano” al Cinema Ritrovato 2019

Il 1951 per il cinema italiano è l’anno di film come Core ‘ngrato di Guido Brignone, melodrammone strappalacrime ispirato in parte all’omonima hit napoletana, uno dei film di maggior successo di quell’annata, Vedi Napoli e poi muori di Riccardo Freda, con la comparsata di un giovanissimo Claudio Villa nel ruolo di un cantante melodico, Sette ore di guai di Metz e Marchesi, primo dei quattro film di Totò tratti dalle farse di Edoardo Scarpetta girati poi con Mario Mattoli nel ’53 e ‘54 e campioni di incassi (Un turco napoletano, Miseria e nobiltà, Il medico dei Pazzi). Sono anni in cui è dilagante dunque l’influsso della cultura napoletana a livello nazionale. Non è un caso se proprio nel 1951, lo stesso figlio (illegittimo) di Scarpetta, Eduardo De Filippo, decide di portare al cinema una delle sue commedie di maggior successo, Filumena Marturano, contenuta nella raccolta La cantata dei giorni dispari. Scritta nell’immediato dopoguerra l’opera aveva raccolto grande consenso al Teatro Eliseo di Roma nel 1947, tanto che la compagnia fu anche ricevuta da papa Pio XII, a cui Titina De Filippo recitò il monologo della Madonna delle rose (“‘e figlie so’ ffiglie!”).

Raccontò Eduardo: “L’idea di Filumena Marturano mi nacque alla lettura di una notizia; una donna a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fatterello piccante, ma minuscolo; da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara delle mie creature”.

Filumena Marturano è la prima opera di Eduardo che ha per protagonista assoluta una donna e fu scritta per sua sorella Titina. Anna Magnani avrebbe voluto la parte della protagonista, ma Eduardo non se la sentì di escludere dal film la sorella, che aveva portato al successo il suo personaggio in teatro. Così Titina ebbe modo di creare una delle sue interpretazioni più riuscite, con una recitazione scarna ed essenziale, determinata e forte come il personaggio, dando vita ad una Filumena immortale, che combatte caparbiamente per ottenere un riconoscimento come donna, madre e moglie (e forse novella capofamiglia?) nella società patriarcale del 1916. La Filumena di Titina De Filippo è una amministratrice di beni, di lavoranti, dell’economia domestica che le gira intorno, oltrechè delle vite dei suoi tre figli e del suo uomo. All’opposto Domenico Soriano/Eduardo il suo compagno more huxorio è un ex gagà, amante della bella vita, vedovo, ricco di famiglia, proprietario di scuderie, passa il tempo tra gite in barca e belle donne, agi e divertimento, non si fa mancare nulla. Ma non è un uomo che porta i pantaloni, è più che altro un mezzo attraverso cui la donna, vero unico perno di questa famiglia allargata ante litteram, può tentare di raggiungere il suo fine, il posto di Signora Soriano in società. Filumena è una vera e propria leader che persegue la sua personalissima battaglia contando sulle sole proprie forze e sull’appoggio e il seguito di una schiera di collaboratori fedeli. Prima fra tutte la caustica e sferzante Tina Pica che sta benissimo nei panni di Rosalia, sua donna di fiducia.

Eduardo porta al cinema la sua commedia più famosa (dopo di lui anche De Sica nel ‘64 con Matrimonio all’italiana, film per cui Eduardo, insoddisfatto, vietò l’uso del titolo originale) tentando di scostarsi dalla fissità scenica del teatro, dialogando in modo quasi sperimentale con il dispositivo cinematografico, lanciandosi in frequenti giochi di specchi e rimandi, luci e ombre, carrellate che svelano le quinte dell’azione e uso più frequente di riprese in esterno (come per l’incipit del film, il matrimonio in pompa magna con il percorso in automobile, o la passeggiata padre/figli). Così se è pur vero che “il suo stile di recitazione era difficilmente asportabile al cinema” (E. Morreale) a differenza di quello dei due fratelli Peppino e Titina, resta indiscutibile il suo ruolo di autore tra i più influenti della cultura italiana e quindi anche nel cinema.

Nella trasposizione dal teatro al cinema, l’opera sacrifica parte della sua napoletanità, optando per una ulteriore italianizzazione della lingua originaria (probabilmente per finalità commerciali), lasciando ai protagonisti (rispetto alla piéce originaria) giusto un accento partenopeo ogni tanto condito da qualche intercalare dialettale. Ma quando la tensione, data dalla drammaticità della storia sale, allora Filumena recupera in pieno le sue colorite espressioni campane, provocando un sostanziale effetto comico. Così per esempio Filumena affronta la fidanzata di Domenico, Diana, ancora ignara della sua “resurrezione” esprimendosi contemporaneamente in due lingue: il napoletano-italianizzato quando deve comunicare a Diana come sono andati i fatti, alternato al napoletano più stretto quando la deve minacciare: “Il preto è venuto e siccome ha visto che ero in agonizzazione…ha consigliato a don Domenico Soriano di perfezionare il vincolo in estremità… Levate o’ cammise, levate o’ cammise!”. Uno dei tipici effetti-Eduardo, lo switch dal provinciale al nazionale, dal privato al sociale, dal teatrale al cinematografico.

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