“Yo imposible” a Gender Bender 2019

Yo imposibleBeing Impossible, essere (un io) impossibile, è un film (produzione Venezuela/Colombia) che già dal titolo traduce in più idiomi il concetto di un disagio inesprimibile e irrappresentabile, quello di chi scopre, in ritardo, la propria intersessualità nascosta, negata, chirurgicamente cancellata.  Ariel (Lucía Bedoya) è la classica brava ragazza, impiegata del mese nella sartoria religiosa dove lavora, amorevole accuditrice in ospedale della madre (María Elena Duque) terminale, fidanzata premurosa. Questa apparente normalità è rappresentata dalla regista Patricia Ortega nelle tonalità grigio verdastre di un buio livido, che necessariamente richiama la disperata condizione economica del Venezuela. Il Paese infatti proprio di recente è rimasto al buio per 100 ore consecutive di black out, che hanno reso visibili al mondo la sua povertà e il collasso economico in cui versa la nazione. Una nazione che non brilla neppure nel campo del riconoscimento dei diritti delle persone LGBT, e che per esempio non consente alle persone transgender di cambiare nome e genere nei documenti ufficiali.

L’unico colore vivo, che da subito interviene a macchiare la rappresentazione, è il rosso del sangue che scorre tra le gambe della ragazza ogni volta che tenta di avere un rapporto sessuale col suo uomo. Il corpo di Ariel, un corpo esile, androgino, fragile, pare spezzarsi in due nel momento in cui si spoglia, resta nudo davanti ad uno specchio, interrogando silenziosamente la sua “natura”, nel senso popolare che questa parola assume nelle nostra lingua, riferendosi agli organi genitali femminili. Così la “natura” di Ariel non dice la verità sulla sua identità, il suo stesso nome proprio di persona denuncia una non casuale assonanza con la parola liar (bugiarda), come a sottolineare che Ariel stessa è una bugia, la personificazione carnale di una inconfessabile menzogna. 

Il percorso visivo che conduce Ariel alla scoperta di tale falsità è fatto di ostacoli, pezzi di manichini da sarto che occupano l’inquadratura, oggetti di scena che ostacolano la visione, la limitano la circoscrivono a pochi particolari corporei, piani sfalsati, sfocature dell’obiettivo che lasciano sul fondo ciò che più è vicino alla luce della verità. Patricia Ortega sembra volerci costringere sulle nostre poltrone di spettatori ad una visione non troppo comoda, ma piuttosto sofferta come la scoperta sconvolgente della sua protagonista. La scoperta di un io soffocato, di una identità violata dalla prepotenza di chi pretende di ridisegnare i corpi e le persone secondo canoni univoci e socialmente accettabili di gender.

“La cosa che mi fa sentire peggio è la menzogna” dice Ariel, ripresa nel finale insieme ad altri intersex che si alternano sullo schermo di una videocamera a testimoniare le vite di altri corpi fuori da ogni schema. La scelta della propria identità sessuale, non può mai essere imposta, “è una scelta che avrei voluto fare io”, dice Ariel.  La convinzione della madre morente resta però quella: “Una donna senza uomo è una donna incompleta”. Grazie alla sua morte, che pone fine ad una maternità oscurantista, Ariel può arrivare a comprendere che un io privato della propria identità non troverà mai la giusta direzione per incontrare se stesso e il prossimo. Simile o diverso che sia.