Vittime e carnefici: “Agnus Dei”

“È una storia incredibile un evento storico che getta una luce oscura sui militari sovietici, una verità che le autorità si rifiutano di divulgare e che, purtroppo, non è così lontana dall’attualità. Atti brutali come questo sono ancora praticati, le donne continuano a essere oggetto di trattamenti disumani in numerosi Paesi in guerra”. Anne Fontaine

Polonia, dicembre 1945. A pochi mesi dalla fine della seconda Grande Guerra, il comunismo sovietico domina sulla Repubblica Popolare di Polonia, dopo che l’avanzata dell’Armata Rossa spinse fuori dal Paese le forze occupanti naziste. Furono anni funestati da numerosi disordini sociali e dalla depressione economica postbellica. A questi si aggiunsero le consuete brutalità che da sempre si accompagnano alle guerre. Secondo il diario di Madeleine Pauliac, giovane dottoressa francese della Croce Rossa, da cui è tratto Agnus Dei (grazie ad un’idea originale di suo nipote Philippe Maynial) furono 25 le religiose vittime dell’indicibile orrore di stupri ripetuti ad opera di soldati sovietici e tedeschi. Alcune furono stuprate fino a 40 volte, 20 morirono e 5 (7 nel film) si scoprirono incinta.

Agnus Dei (nella selezione ufficiale del Sundance Film Festival 2016) racconta dell’avventuroso aiuto portato a queste donne nel loro convento di clausura, da una ragazza di 27 anni impegnata in missione con la Croce Rossa a Varsavia, a curare le terribili ferite della recente guerra. La regista Anne Fontaine fa una scelta di genere dando vita ad un film drammatico a sfondo religioso, ma cerca di discostarsi dal comun denominatore di altre pellicole simili (Magdalene -2002, Il dubbio -2008, La religiosa – 2013) dove la fonte dei soprusi era di matrice “catto/religiosa” e la denuncia rivolta alle “angherie” di madri superiore e consorelle, concentrando il suo interesse, piuttosto, a sottolineare la violenza di genere.

Le suore sono qui in primis donne sottoposte dalla brutalità maschile a oscene atrocità, al prevaricare della forza bruta contro la vita di purezza e spiritualità da loro scelta. Donne messe di fronte ad un interrogativo che le tormenta per nove mesi dopo la violenza subita: come conciliare la fede con questo atto atroce? Di questa vita che presto verrà alla luce cosa vuole Dio che ne faccia? E soprattutto chi voglio continuare ad essere, donna e madre o casta sposa di Dio? Al centro di questi interrogativi scava la sua trama il tema della fede, definita dalla co-protagonista Suor Maria (Agata Buzek) come “ventiquattro ore di dubbio e un minuto di speranza”, ma anche quello più profondo dell’identità di genere: e il filo rosso che collega tutti i puntini è il personaggio di Mathilde (una candida e determinata Lou De Laage), giovane donna medico che prende coscienza di sé, della sua libertà sessuale, delle sue potenzialità professionali, del suo coraggio, come essere umano scagliato in soccorso dei più deboli durante uno scenario di guerra.

Questo giovane talento del cinema francese è capace di incarnare nel suo viso delicato e nelle labbra carnose, nello sguardo imbronciato, tutte le componenti dell’essenza femminile: grazia, bellezza, ma anche talento e determinazione. Grazie a Mathilde/Madeleine ed alla sua alleata suor Maria, nell’impresa di curare le donne dalle loro ferite più profonde, le sorelle riusciranno a  partorire e in qualche caso anche a prendere tra le braccia i loro figlioli, veri agnelli sacrificali per la redenzione del peccato originario, in un contesto così retrogrado in cui vittima e carnefice sono accomunati dalla stessa matrice. E, cosa ancora più importante, la collaborazione tra la donna medico e la sorella porterà ad un risultato particolarmente eccezionale: riusciranno a far risplendere un barlume di speranza tra le quattro mura del convento e a far sì che la vita e la solidarietà umana tornino a vincere su morte e senso di sconfitta.

Al centro del film insomma un incoraggiante anelito alla vita, seppur in un contesto che sembrerebbe negarlo, un contesto intriso di senso del peccato e mortificazione della carne, dove spesso non è la legge di natura a dover prevalere, ma le dure regole della disciplina ecclesiastica (silenzio, preghiera, castità intesa come mortificazione dei cinque sensi). E in uno scenario simile, intriso di una spiritualità totalizzante, lo spunto interessante, è che davvero non si possa mettere Dio da parte nemmeno per il tempo di una auscultazione.

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