Una, cento o nessuna famiglia?

Una famiglia è uno di quei film di cui senti il bisogno di scrivere a caldo.

Un film che spaccherà il pubblico a metà: amanti e detrattori, perchè di due tipologie son gli esseri umani, quelli che di fronte ad una delazione reagiscono con un ringraziamento e quelli che si infuriano per lesa maestà.

Fa ben sperare il secondo lungometraggio di Sebastiano Riso, presentato in Concorso al Festival di Venezia quest’anno, perchè sembra far parte di una sotterranea new wave del cinema italiano, quella che rifacendosi al grande cinema dell’impegno degli anni ‘70 (ai Rosi ed ai Petri) riscopre con rinnovato ardore la settima arte come arma di denuncia sociale, fotografia del mondo che viviamo, bello e brutto, ma pur sempre vero. Il cinema non edulcorato. Un cinema in cui tra “Mariti e mogli” che indegni escono dal botteghino con incassi da urlo e premi immeritati, spiccano per concretezza, e disarmante verità le storie come quella di questa Famiglia appunto.

Una famiglia è il ritratto tutt’altro che sacro, ma certamente ammiccante al profano, dell’Italia di oggi, di una indefinita periferia romana, nella quale prolifera un agghiacciante traffico di bambini. Maria/Micaela Ramazzotti è il nome (non casualmente biblico) di una madre, che a causa di una forma malata di amore per il suo uomo, sacrifica il suo “cuore sacro”, mercificando ciò che di più caro è al mondo, i suoi bambini. Patrick Bruel, attore e chantant francese vittima di una reale adorazione da parte del pubblico femminile dagli anni ‘90 in poi (si parlò addirittura di bruelmania), presta il volto al mostro, Vincenzo, il compagno di Maria, manipolatore ingabbiato nella sua stessa freddezza (come è rappresentato dalle stesse inquadrature che lo incorniciano) fautore delle sue disgrazie. Un volto che inganna, perchè, come dirà l’ultima delle sue vittime prescelte, Stella/ Matilda De Angelis, “ha gli occhi buoni”.

Nonostante il film sia stato interamente scritto da uomini, colpisce per la sua capacità di sondare a fondo l’animo femminile e di restituire una radiografia disarmante dell’esser donna e vittima. Vittima di una sottile violenza non tanto fisica e verbale, quanto psicologica, e lo spazio alla violenza è concesso sempre da una dipendenza. Così Riso ci regala un film che contemporaneamente ha il coraggio di accendere i riflettori su più tematiche scottanti della nostra sciagurata attualità: la violenza sulle donne, la stepchild adoption, il buco legislativo su un tema che, per la sua radicale importanza, dovrebbe essere blindato.

Così la domanda angosciosa che ci perseguita per tutta la visione del film è cosa c’è di più facile che fare un bambino oggi e darlo a chicchesia a pagamento? Oppure, come è possibile che esistano donne così succubi della loro situazione di coppia da non avere gli strumenti per salvarsi e salvare, con loro, i propri bambini? E ancora, perchè mai una coppia gay che volesse addivenire a famiglia, deve trovarsi costretta a ricorrere a soluzioni deprecabili pur di avere un bambino?

Se pensiamo poi che la sceneggiatura è stata scritta prendendo spunto da intercettazioni telefoniche della procura di Grosseto, capiamo che il rifiuto per il racconto di storie simili di disagio psichico, sociale, e affettivo, è dietro l’angolo.  

La pellicola si muove silenziosamente tra un prima e un dopo, sembra quasi spaccarsi in due, con un primo tempo più silenzioso e grigio, concentrato sulla presentazione dei personaggi (anche se volutamente del loro passato non ci verrà svelato poi molto) ed una seconda parte ritmicamente più movimentata, nella quale Maria sembra svegliarsi dal suo torpore e rientrare in possesso della sua volontà, e con essa, del corpo suo e dei suoi figli (morti o vivi che siano). La scelta registica più apprezzabile per la narrazione di un tema talmente inenarrabile è stata quella di procedere per sottrazione. Pochissimi i dialoghi e spesso affidati alla improvvisazione di una Ramazzotti assai ispirata e in parte, che aggiunge battute alla sceneggiatura originale, dando una forte impronta personale al film (nella scena in cui dice a Vincenzo “ti ricordi lo sguardo tuo la prima volta che mi hai vista a Ostia?”). Colonna sonora e costumi scarni e dai colori sbiaditi, come anche la tinta dei capelli giallo/grigi di Maria. Il film si sviluppa nei silenzi e nei non detti, e addirittura alcuni nodi centrali della trama si giocano sugli occhi della protagonista o sul vagito silenzioso di una nascita tra le più strazianti del cinema, in cattività solitaria, ma quasi pacificante.

Un’ultima nota sul divieto di visione ai minori di 14 anni. La produzione è riuscita ad abbassare tale divieto dai 18 ai 14 anni e questa è già stata una vittoria. Il divieto è stato giustificato con il fatto che il film “possa traviare un pubblico giovane”, ma permetteteci di dissentire con questa visione e di affermare l’opposto, poichè crediamo che sia proprio ai giovanissimi che vada mostrato un film in cui è chiaro che non sempre le persone a cui ci rivolgiamo per avere aiuto in situazioni che vorremmo mantenere segrete sono quelle più giuste o più buone a cui affidarsi. E quale errore peggiore di questo potrebbero compiere le nostre figlie se, trovandosi allo sbando, si affidassero al primo mostro con gli occhi buoni che gli capitasse per strada, e annusasse la loro debolezza?

Dunque il nostro consiglio è questo: mandate più persone possibile a vedere questo film, perchè a volte, le cose più importanti e i film più incisivi fanno così: scorrono sotto traccia.