The place, il Divino Mastandrea e le preghiere dei suoi questuanti

Come spesso accade per il cinema borghese…quando si tenta di replicare un enorme successo di botteghino (Perfetti sconosciuti 2016) con una formula facile…si rischia di fare un buco nell’acqua.

Durante la proiezione di The Place, l’ultima fatica di Paolo Genovese, mi guardavo attorno, e notavo che non soltanto io non riuscivo a star ferma sulla sedia. The Place è stata una pellicola che mi ha respinta sin dal primo momento della sua proiezione…e mi sono chiesta il perchè.

Basato sulla serie televisiva The Booth at the End , The Place ti catapulta immediatamente nel bel mezzo della sua storia, saltando i convenevoli, le presentazioni, i preliminari. Ci troviamo improvvisamente intrappolati all’interno di questa scenografia: il bar, quella sedia quel tavolino in un angolo del locale The Place, appunto, che sancisce come scelta di regia determinante quella della unità di luogo (per tutte e due le ore della durata), che via via aumenterà la sua forza claustrofobica, facendoci sentire stretti, soffocati.

Nessuna presentazione del mefistofelico personaggio di Mastandrea. Nessuna intro. E nessuna spiegazione a posteriori. Tutta la trama si svolge nei racconti dei personaggi, nella esposizione dei “dettagli” di ciò che hanno fatto o  dovranno fare per ottenere quello che vogliono. A nostro sentire questo modo di scrivere sceneggiatura denota una grande incapacità: quella di mettere lo spettatore in condizioni di sintonizzarsi con la storia che si vuole raccontare. Si resta a mezz’aria per tutta la visione. Non si riconosce con chiarezza nè il piano della narrazione, se di tipo realistico o simbolico/metaforico nè tanto meno l’essenza del protagonista: chi è? perchè passa tutta la sua vita in quel bar? non torna mai a casa? non va a dormire? non mangia non va al cesso? come fanno i suoi “clienti” a sapere che lui esiste ed esercita quella professione? ma soprattutto…cosa mette in campo? Una sorta di magia o semplice deduzionismo? Cosa ci guadagna ad assegnare i suoi compiti? Perchè annota tutto sulla sua dannata agenda? Troppe sono le falle narrative per permetterci di accettare il patto che sta alla base del racconto, e da cui parte e si irradia quello che vorremmo definire come una sorta di “straniamento aggressivo”: ossia un vero e proprio rifiuto della pellicola che ti porta ad uscire dal cinema quasi “incazzato” per aver assistito ad una promessa mancata. Mi aspettavo un bello spettacolo e invece ho fatto un buco nell’acqua. Nel cast degli attori (osannato come “squadra che vince non si cambia” , ma da noi criticato come scelta fin troppo “sicura” e un po’ facilona), spiccano per bravura Giallini e Papaleo, e per impotenza espressiva la “fu” bella Ferilli, che con un viso sempre più gommoso e tirato, e due labbra spaventosamente gonfie ed asimmetriche, non riesce nemmeno più a interpretare la bambolona sexy, scivolando nella comica farsesca nei momenti in cui, moderna cenerentola, tenta di sedurre con una ramazza in mano il dannato Belzebù/Mastandrea sulle note di Sunny.

Unica nota positiva della pellicola l’ottima interpretazione di Mastandrea, che si conferma all’altezza di un compito così ingrato: rendere credibile una scrittura piena di falle. E perchè no, l’interesse “psichiatrico” per l’unica traccia interessante della trama, ossia il sondaggio portato avanti dal film: cosa sei disposto a fare per ottenere quello che vuoi?