“Stanlio e Ollio” tra malinconia e backstage

Era il 1921 quando Stanlio e Ollio si incontrarono sul set del loro primo film insieme, si chiamava Cane fortunato e i due attori, che si conoscevano appena, si rincorrevano per tutto il corto impersonando un tenero vagabondo (Stan) e un malfattore (Oliver). In questa pellicola, di cui Stanlio era l’assoluto protagonista, troviamo solo un’esile reminiscenza di ciò che in seguito sarebbe diventata la tipica caratterizzazione comica della coppia: il furbo, secco, mattacchione e il saccente, corpulento, pacioccone. Stanlio e Ollio. Sarà poi negli anni ‘30 che la coppia comica conoscerà un enorme successo grazie alle produzioni di Hal Roach con cui girerà quasi 80 dei 106 film insieme, fino alla rottura con il produttore.

Ed è a questo punto della storia (vera) che inizia la trama del film Stanlio e Ollio di Jon S. Baird: Hal Roach bisticcia con Laurel a causa del suo costante intervento nelle scelte registiche e di sceneggiatura. I numerosi screzi con il produttore si traducono con un mancato rinnovo del contratto per Stan, e un tentativo maldestro di produrre Oliver in una nuova coppia comica, senza il compagno, che nel frattempo approderà alla Fox.

Biopic atipico questo Stanlio e Ollio, in cui lo sceneggiatore Jeff Pope (Philomena) decide di usare una focalizzazione cronologica inconsueta, non narrando l’inizio, né l’apice della carriera artistica dei due protagonisti, bensì il momento finale, il viale del tramonto percorso dal più celebre duo comico slapstick della storia del cinema. La sceneggiatura procede spedita attraverso una serie di voli pindarici che danno per scontate un po’ tutte le tappe più significative del percorso artistico di coppia di Stanlio e Ollio, impedendo alle generazioni più giovani (magari ignare di certa storia del cinema) di orientarsi nel resoconto di una carriera lunga e frastagliata, e forse persino di entrare in empatia con i personaggi stessi e con la storia della loro amicizia, solo a tratti accennata, come del resto le biografie dei due artisti. Soprassedendo perfino su una narrazione puntuale del conflitto alla base del film. Il conflitto, ossia il momento che dovrebbe rappresentare l’apice drammatico di una sceneggiatura, qui è solo accennato, suggerito: Ollio girò un film, Zenobia, nel 1939, il cosiddetto (dalla sceneggiatura) “film con l’elefante” (Zenobia appunto, nella versione italiana ribattezzato Gelsomina e raffigurato nelle locandine, per suggerimento di Carlo Croccolo, doppiatore di Ollio, con una bombetta tributo ad un Laurel assente) senza Stanlio. Per Stanlio fu tradimento. Per Ollio necessità.

Segue un salto temporale di 16 anni. Il conflitto non esplode nella narrazione, implode. I due sono ancora insieme e di nuovo calcano le scene con i loro sketch comici, la doppia porta, uova sode e noci (la visita all’Ospedale di Contea), i pesi sulla testa di Ollio, le martellate su quella di Stanlio, balletti e le iconografiche bombette. Senza aver chiarito quanto avvenuto anni prima, ormai anziani, si gettano a capofitto in una avventurosa tournée europea che li tiene impegnati con spettacoli dal vivo di grande successo nei maggiori teatri in attesa di iniziare le riprese del prossimo film, il mai realizzato Robin Hood. Ai due si affianca il doppio duo comico delle mogli, qui impersonate da Shirley Henderson (Mrs Hardy) e Nina Arianda (Mrs Laurel), che rispecchiano alla perfezione i caratteri opposti e simmetrici dei loro mariti: trovata che si traduce presto come uno dei maggiori pregi della pellicola di Baird.

Ma all’ inoppugnabile talento mimetico dei due attori Steve Coogan (Laurel) e John C. Reilly (Hardy), che riescono nell’impresa di far rivivere i loro personaggi, palpitando della stessa semplice e genuina comicità, con il tie-twiddle di Ollio, insieme alla mimica facciale, i piagnistei e le spallucce di Stanlio, non corrisponde un climax nella narrazione che agganci lo spettatore alla poltrona. Si ha come l’impressione che il racconto proceda per osmosi, pare di assistere quasi ad un backstage del film, quello di come Stanlio e Ollio finirono dopo mille successi (non a caso sono frequenti le inquadrature dei due personaggi ritratti di spalle, durante un’esibizione in teatro, tra le luci della ribalta che accecano lo spettatore). E il backstage non riesce a farci entrare nel vivo della storia, ma proprio come nel processo osmotico, si frappone, membrana semipermeabile, tra sé stesso e i suoi spettatori, impedendo la completa diffusione del solvente nel soluto.

Questo film è come un processo spontaneo dovuto alla giusta volontà di celebrazione del mito Stanlio e Ollio (a cui peraltro finora nessuno aveva dedicato un’opera così agiografica), che però, purtroppo, essendo incapace di un apporto esterno ed ulteriore di energia, finisce per diluire la ‘soluzione’ di partenza riducendone in qualche modo la densità, la concentrazione. La sceneggiatura sembra non decollare mai e il racconto si protrae per due ore senza particolari picchi drammatici, in un appiattito resoconto delle vicende soprattutto produttive del duo comico (forse anche quelle biografiche avrebbero meritato un approfondimento ulteriore), che poco scalfisce l’animo dello spettatore. Donando qua e là, discontinuamente, qualche risata grazie alle gag del prolifico autore Stan.

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