Sono un uomo, non un cane: “Io, Daniel Blake”

In programmazione in queste ore, il nuovo film di Ken Loach (Io, Daniel Blake) dopo le controversie sulla Palma d’Oro a Cannes, sembra oggi ottenere ben altra unanimità. Per Cinefilia Ritrovata lo recensisce Francesca Divella. 

Si apre su un fotogramma nero e la voce fuoricampo del protagonista che “bisticcia” con l’ottusa burocrazia del welfare l’ultima toccante storia di Ken Loach, vincitrice della Palma D’Oro a Cannes 2016: Io, Daniel Blake o della deriva sociale a cui sono spinti i protagonisti da disoccupazione e indifferenza. Nell’epoca delle new technologies e del frenetico scorrere dell’esistenza davanti a schermi  di ipad, iphone o pc troppo impegnati per accorgersi del prossimo in difficoltà, l’ottantenne Ken Loach si sofferma a raccontare una storia di solidarietà e sussidi, di lentezza e piccole cose, di tempo speso per essenziali riparazioni quotidiane che, insieme al resto, sistemano un po’ anche il cuore di una umanità desolata e deserta, affranta e sfinita dall’ impietosa macchina della società borghese-capitalistica, pronta a stritolare chiunque resti incastrato nei suoi diabolici meccanismi.

La trama della pellicola è intessuta, come nei grandi classici del cinema di Loach, di una grammatica cinematografica netta ed essenziale accompagnata da una scrittura altrettanto precisa e capace di rapire da subito lo spettatore affezionandolo ai protagonisti. Attraverso piccoli gesti di sempre più rara umanità Loach ci dice che, nonostante tutto, possiamo non sentirci e non restare soli, nella gelida landa di indifferenza e disperazione che insieme alle nuove leggi di Stati sempre più burocratizzati e rigidi sulle loro (im)posizioni (vedi la bedroom taxcriticata aspramente da un personaggio del film), costruiscono intorno a noi uno scenario di lunare desolazione.

Daniel Blake (interpretato da Dave Johns) è un carpentiere, vedovo, 60 enne,  di Newcastle, città un tempo sede di importanti cantieri navali. A causa di una malattia cardiaca, e del parere contrario del suo medico curante, Daniel è costretto a smettere di lavorare, e prova quindi ad ottenere dallo Stato l’indennità di malattia. Ma, e qui si apre la voragine di kafkiana paradossalità che lo stritola in ingranaggi oscenamente miopi, a causa del parere azzardato di una “professionista sanitaria”, Blake perde la possibilità di ottenere tale sussidio, essendo valutato non abbastanza malato per riceverlo, ma nemmeno troppo inadatto al lavoro per contare su quello di disoccupazione. Per tutta la pellicola il protagonista si scontra con l’incomunicabilità di una società tecnocratica e burocratica, che sembra non esser fatta di uomini in carne ossa e cuore come il protagonista, ma di fantocci privi di occhi per vederlo, di orecchie per ascoltarlo e di un’anima per rispondere alle sue richieste di aiuto o anche semplicemente di informazioni (dovute). Daniel rivendica i suoi diritti, come essere umano, di essere ascoltato, e poi come cittadino, di ottenere una risposta che arrivi in tempi umanamente compatibili con la fame e la povertà, che si avvicinano minacciosamente.

L’unico barlume di speranza, l’unica luce che appare come un monito in questa storia cupa, è quella della solidarietà. Daniel inascoltato da tutti, ascolta, ignorato nelle sue richieste di aiuto, aiuta lui per primo: ad illuminare la sua vita in questo momento di amarezza arriva l’occasione, la speranza: il prossimo. Il suo prossimo si chiama Katie (Hayley Squires), è una giovane mamma single di due bimbi, alle prese con il recente trasferimento dalla capitale Londra e con problemi lavorativi. In un attimo e con estrema naturalezza, Daniel entra nella vita di Katie e figli, “dando una mano” come se fosse la cosa più naturale possibile fra esseri umani. All’interno di un ricostituito nucleo familiare originario, dove l’affetto scorre sul filo dei piccoli gesti (accompagnare i bimbi a scuola per permettere a lei di cercarsi un lavoro, togliersi il cibo di bocca per ringraziare il proprio benefattore dell’aiuto ricevuto) Katie e Daniel trovano la loro risposta ad un mondo sordo e indifferente che li taglia fuori dalla circolarità di una esistenza fatta solo di lavoro/remunerazione/consumo.

Ma l’affetto non basta e l’indigenza è alle porte. E il suo bussare forte insieme al freddo ed alla fame, rischia di far perdere ai protagonisti anche la loro dignità. Così Daniel fa qualcosa di inaspettato, e ci sorprende, nel suo tentativo nobile di riacquistare la propria identità, contro un sistema che lo vorrebbe ridurre a numero, una casistica da incasellare, un percorso precostituito da seguire.

“I due personaggi – come ha dichiarato il regista a Cannes – sono ispirati alle centinaia di uomini e donne dignitosi e ai loro bambini che hanno condiviso le loro storie più intime con noi”. Gli attori, sono una giovane attrice disoccupata ed un comedian inglese, capace di ispirare la nostra simpatia sin dal primo istante. La forte impronta documentarista del cinema di Loach e il contenuto politico che critica lo status quo rendono ancora una volta il regista Maestro indiscusso delle grandi piccole storie fatte di contraddizioni e malessere sociale, storie che sfociano in casi estremi ed esemplari capaci di denunciare l’alienazione della società di appartenenza. Non per niente Ken, la cosiddetta “mosca rossa” del cinema, considerato da sempre in patria un anti-patriota per evidenti motivi, continua a riscuotere a mani basse il favore di pubblico e critica.

E l’epigrafe finale del film la dice lunga sul perché: Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo non un cane, e in quanto tale esigo i miei diritti. Esigo che mi trattiate con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino, niente di più e niente di meno.”

Francesca Divella

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