“Semina il vento” e l’equilibrio perduto tra natura e ambiente sociale

“In natura ogni predatore diventa preda di qualcun altro. È un equilibrio, funziona così.”

Si potrebbe riassumere con queste poche parole il senso ultimo del bel film di Daniele Caputo (tarantino, classe 1984), Semina il vento in sala dal 3 settembre con I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection. Se non fosse che in un tempo relativamente breve (un’ora e trenta minuti) il giovane regista pugliese è riuscito a condensare una moltitudine di significati, suggestioni, sollecitazioni capaci di andare a segno nell’ obiettivo più arduo da colpire: la comunicazione profonda.

Il film racconta la storia di Nica (Yile Yara Vianello l’intensa protagonista di Corpo Celeste di Alice Rohrwacher) poco più che ventenne studentessa di agronomia all’università. Dopo un’assenza di tre anni, che ha più il sapore di una fuga, dalla sua casa d’origine, Nica torna nella sua città (una Taranto martoriata dai fumi dell’Ilva, seminati dal vento appunto) e intraprende una lotta appassionata, supportata dalle conoscenze acquisite con lo studio, per salvare la sua terra dai parassiti (i pidocchi degli ulivi tanto simili alla xylella), l’uliveto di famiglia dai compromessi scellerati a cui il padre è disposto a cedere per due soldi.

Nella battaglia personale della studentessa, ritratta come una giovane scienziata, la tenacia impiegata per salvare gli alberi di famiglia, la terra dove è cresciuta, l’impresa del padre, è la stessa che anni prima sua nonna, con fama di stregoneria, impiegò per evitare che gli stessi alberi fossero abbattuti per fare posto all’asfalto di una strada.

Così come la nonna mise in scena riti magici e fantastiche inondazioni per salvare gli ulivi secolari dalle ruspe, Nica usa la conoscenza acquisita negli anni di studio, e attua protocolli relativi alla lotta biologica contro i parassiti, figurativamente simile ad una strega che mette in scena riti magici, formule e pozioni. In questo parallelismo scienza/stregoneria, competenza/ignoranza, civica attenzione all’ambiente/delinquente indifferenza allo stesso, si gioca la fortissima valenza simbolica del film.

L’aspetto di Nica è volutamente accostato all’immaginario di una strega, ha i capelli corti, tagliati male, forse da sola allo specchio (ricorda un po’ la Giovanna d’Arco di Dreyer per questo), l’incarnito pallido, gli occhi chiari, le labbra di un rosso acceso, veste con giacche enormi di panno di lana rossa, grezza, salopette di jeans. È un incrocio tra l’immagine contadina e agreste di un’Italia provinciale ed arretrata, e una figura nuova e alternativa di giovane maga, depositaria di “virtute e canoscenza”. Come tutte le “streghe” ha una mascotte animale con sé, una gazza (nera) che si lascia addomesticare e le fa compagnia. Forse è una reincarnazione della nonna scesa a darle supporto nella sua battaglia. Spesso le immagini diventano una soggettiva del pennuto osservatore, con un accento di compassionevole pena per i danni che gli uomini procurano alla stessa terra che gli dà da mangiare.

“La gente preferisce morire di tumore piuttosto che di fame, come se non ci fosse altra scelta”, poche parole, ma mirate, in una sceneggiatura che lascia ampio spazio alla colonna sonora, il cui sottofondo costante è un sinistro cigolio metallico, proveniente dalla fabbrica vicina. Formule magiche (“Vento di mare venti della foresta, guarite mia madre dal mal di testa”) e sibilare del vento tra le fronde degli ulivi. Agenti atmosferici, pioggia e fuoco (quasi a richiamare roghi di inquisitoria memoria), la terra zappata, seminata, insultata da sversamenti criminali, la terra che cerca un nuovo equilibrio con la complicità dell’uomo che smetta di insultarla, e torni ad amarla.

Daniele Caputo riesce con Semina il vento a depositare una grande quantità di messaggi positivi, di speranza, ma anche di rimprovero, senza mai cadere in nessuna forma di patetici buonismi, né vittimismi. Semina il vento va dritto al cuore, perché nella semplicità raffinata delle sue immagini ci costringe ad una autocritica sociale, e ci pone di fronte ad una domanda: “La malattia degli alberi è il sintomo di qualcosa di più grande. La malattia l’hanno portata i pidocchi, ma perché gli alberi si ammalano?”. Se l’inquinamento è soprattutto ormai nella testa delle persone, è da lì che bisogna ripartire. Riallacciando un sentimento di appartenenza alla propria terra, rimettendo in comunicazione la testa con i piedi, le chiome degli alberi con le radici, le radici con l’acqua. Possibilmente pulita.

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