Pirandello e Schopenhauer nell’atto unico di Lavia

 1 LOW - Uomo dal fiore in bocca - G. Lavia, M. Demaria_ ph. Tommaso Le Pera

Della morte e della vita, dell’amore coniugale e delle donne, del senso che hanno, per chi non ne avrà più, le piccole cose …di tutto questo parla lo spettacolo con cui Gabriele Lavia passa al setaccio l’humus pirandelliano per mettere in scena il suo L’uomo dal fiore in bocca …e non solo,  diretto e interpretato da Lavia, insieme ad un bravissimo Michele Demaria ed alla (nascosta) Barbara Alesse.

Dopo Sei personaggi in cerca d’autore, passando per Vita di Galileo di Brecht, Lavia torna al drammaturgo agrigentino arricchendo il testo originale con altre novelle che affrontano il tema della donna e della morte. Come sempre il grande autore e attore milanese, non si accontenta di mettere in scena la nuda “fabula” , ma sente la necessità di arricchirla e condirla, a volte forse anche di complicarla, con le sue più approfondite riflessioni sulla vita e sulla morte, sul rapporto tra donne e uomini, sul senso della vita in generale...”perchè devo vivere se poi devo morire” è la frase ripetuta ossessivamente come un mantra dal protagonista al pacifico avventore. L’ineluttabilità della morte e la finitezza della vita umana. Lavia filosofeggia in maniera quasi delirante, con alle spalle uno scenario meraviglioso e imponente disegnato appositamente da Alessandro Camera, realizzato interamente nei laboratori del Teatro della Pergola: una struttura portante alta 9 metri che regge le vetrate annerite di una vecchia stazione. Al centro, incombente, un grande orologio che ha smesso di girare. Le vetrate ricordano le inferriate di una prigione. Difatti i protagonisti sembrano paralizzati, bloccati all’interno di questa simbolica sala d’attesa di una stazione ferroviaria del sud, nella quale si svolge tutta la scena. Uniche vie fuga, percepite allo spettatore, dal senso della morte incombente che pervade l’intero spettacolo, sono gli stralci della canzone siciliana intonati deliziosamente da Lavia fra un aneddoto e l’altro. “L’uomo è un animale metafisico perchè sa di dover morire” ce lo insegnava Schopenhauer e ce lo ricorda Lavia , il suo uomo dal fiore in bocca sente il bisogno di arrampicarsi , di attaccarsi alla vita degli altri osservandoli nello svolgimento ripetitivo ed apparentemente insignificante delle loro quotidiane mansioni (impacchettamento di regali, sale d’aspetto mediche). Lavia condisce e reagisce al senso della morte pirandelliano, con il suo innato amore per le donne e su di esse ricama parte dello spettacolo, ricordando che la donna desidera e vuole essere desiderata al pari degli uomini, è la donna a portare i pantaloni, e di donna e uomo bisognerebbe invertire i generi ed esprimere anche in grammatica ciò che poi è nella sostanza: la moglie è IL moglie, il marito è LA marito. Ed è proprio della presenza della donna (o della morte?) che è intriso lo spettacolo, con le apparizioni ripetute della “donna con ombrello” , che aspetta o che passeggia, si tormenta al di là della vetrata.

La morte addosso potrebbe essere il sottotitolo di tutta l’Opera Letteraria di Pirandello – scrive Gabriele Lavia nelle note di regia – si sa che fin dalla sua fanciullezza il piccolo Luigi fu come “risucchiato” dall’orrore e dal mistero della Morte…. segnò per sempre lo Scrittore e la sua Opera”. Lavia porta in scena con questo Pirandello il grande dilemma dell’incomunicabilità, della solitudine che si aggrappa alla banalità dei particolari più piccoli e insignificanti del quotidiano per cercare di rintracciare una superiorità della vita sulla morte. Ma senza dimenticare che “la vita è vento” e come tale, come il fischio di un treno, può soffiare via.