“Ovunque proteggimi” e il cinema popolare d’autore

Ovunque proteggimi, il secondo film di Bonifacio Angius, era una sfida davvero complicata: il regista sardo doveva competere con se stesso e con l’eccezionalità della sua opera prima, Perfidia, che suscitò interesse e scalpore per esser volata dritta dritta dall’anonimia del suo autore al Festival di Locarno.  In comune con il primo lungometraggio, in questo secondo lavoro ritornano tre fattori, l’alcool, la solitudine e la condizione disagiata di chi adulto non riesce a spiccare il volo dal nido originario forse per mancanza di opportunità affettive o solo di coraggio.

Alessandro (Alessandro Gazale) è un omone sulla cinquantina, un mix inusuale e seducente tra la rude fragilità di Zampanò e l’ingenua protettività di Rocky Balboa, gira i bar della Sardegna cantando la sua musica folk con i compagni di sempre, alza spesso il gomito e cerca di soffocare la sua rabbia muta perdendosi tra una slot e un martini di troppo. Una sera, in preda ai fumi dell’alcool, mette sottosopra la casa della vecchia madre con cui vive e finisce in un ospedale psichiatrico. Non temete…niente a che vedere con la pazza gioia di chi approfitta un po’ furbescamente della retorica sulla follia. Alessandro in ospedale incontrerà non tanto la sua redenzione, quanto piuttosto una opportunità: la sua di sentirsi ancora vivo ed innamorato, di un amore il più disinteressato possibile. Francesca (Francesca Niedda) è una giovane madre che per evidenti problemi psichiatrici ha perso la custodia del figlio Antonio (Antonio Angius), ma sogna di fuggire in Spagna per cominciare con lui una nuova esistenza. Tra dialoghi surreali e un’ironia tanto naturale quanto pungente,  Alessandro e Francesca fondono l’uno il proprio cammino nei sogni dell’altra, in un delicatissimo percorso umano che li porta fuori non tanto dalla loro presunta follia quanto dalla reale e inaccettabile solitudine di cui sono vittime (quasi) innocenti.

Ovunque proteggimi è film che nelle intenzioni del regista vorrebbe parlare il linguaggio del più alto cinema d’autore popolare, un cinema capace di esser “bevuto come un bicchier d’acqua” tanto dai critici più scafati quanto dal gommista o dal salumiere sotto casa. Ed in effetti è proprio questa la sua grande forza: è un film in grado di raccontare una storia semplice e potenzialmente universale, incorniciandola in uno scenario che gronda amore per il cinema e i suoi maestri, fatto di una una fotografia luminosa e pungente, scenografie maestose ed epiche come quelle di un film western, personaggi un po’ cowboy un po’ pasoliniani che riescono ad essere matti ed anarchici, ma allo stesso tempo perfettamente razionali e coerenti nelle loro scelte d’azione.

Anarchico è l’epiteto più calzante per Ovunque proteggimi, lo è nello spirito dei personaggi, nella misura in cui emana “quella anarchia positiva che sembra uscita da una canzone di Fabrizio De Andrè” e vuole mettere in discussione le regole prestabilite dalla società, vuol far riflettere, protestare, vuol dire che non tutto ciò che è legale è giusto, non sempre, non da tutti i punti di vista. Ovunque proteggimi è un film sui perdenti, sui rinnegati, sugli inetti a vivere secondo regole prestabilite da altri, che per un attimo, apre uno squarcio di luce fra le tenebre dei volti dei suoi protagonisti con un piccolo grande gesto di ribellione. Un gesto umano ed amorevole, che, chissà perchè, ci fa tornare in mente le parole del sindaco Lucano davanti al suo caso di “ingiustizia”. Del resto così come Mimmo Lucano aveva fabbricato da sè la sua soluzione al problema immigrazione, anche il film di Angius è un film che sa tanto di autore, per il fatto di esser un film “nato in casa”, con attori che fanno parte della sua stessa famiglia (la compagna, il migliore amico, il figlio) e che non a caso recitano con il loro nome di battesimo, come a testimoniare lo stretto rapporto di simbiosi fra maschera e personaggio, una interpretazione così autentica da far sembrare quasi del tutto assente la (ottima) sceneggiatura.

Ovunque proteggimi è un film di quelli che si vorrebbero vedere tutti i giorni, perché commuove, diverte (e tanto, anche grazie al topos del sardo musicista e bevitore che qualunque studente Dams di Bologna potrà confermare) e arriva dritto al cuore dello spettatore, come dovrebbero tornare a fare i film popolari d’autore. Lode a Matteo Rovere che nei panni di produttore sfoggia il coraggio necessario per riportare in sala il cinema che ci piace, quello da lui definito “indie italiano” lontano dalle solite logiche produttive dilaganti.

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