“Noi” e le domande che vale la pena di porsi

Noi di Benedetta Valabrega nasce come saggio di fine corso della giovane regista per il CSC di Palermo e diventa un documentario di 54 minuti che colpisce per il grado di maturità non tanto delle immagini, volutamente amatoriali, quanto del messaggio che esse veicolano. Il film girato come fosse un home movie, piazzando la telecamera come terzo incomodo in qualunque occasione di ritrovo della famiglia Valabrega, riprende con naturalezza e verità momenti intimi, ricordi, confessioni, liti, viaggi, maratone. L’occhio della telecamera coincide con quello di una dei protagonisti della storia, Benedetta Valabrega (la regista), la più giovane di tre sorelle, discendenti di una famiglia di ebrei deportati ad Auschwitz. I suoi bisnonni, Leone e Anita Valabrega, nel settembre del ‘43, all’indomani dell’Armistizio, imposero ai figli di andar via da Roma per fuggire dai nazisti: in seguito i genitori caddero vittime dell’olocausto, mentre Ugo (22 anni) e Bruno (16 anni) riuscirono a mettersi in salvo, in una fuga a piedi da Roma a Napoli dove incontrarono gli Americani.

Il documentario concentra il cuore della sua narrazione su un tema molto caldo per la famiglia Valabrega, quello delle ricorrenti liti familiari (tra nonno Bruno e suo fratello, tra papà Stefano e suo fratello, tra le tre sorelle Federica, Paola e Benedetta), apparentemente tramandate di generazione in generazione, mantenendo sullo sfondo la storia della Shoah vissuta in prima persona dai bisnonni. Questa scelta ottiene per contrasto l’effetto di mettere in risalto un dato sotterraneo molto interessante, ovvero come nella psiche familiare, nell’inconscio collettivo dei discendenti Valabrega o addirittura nella formazione del loro carattere, nelle scelte fatte nelle loro vite, abbia potuto incidere ancora per generazioni e a distanza di anni, l’evento della Shoah.

Andando alla ricerca del momento esatto in cui il conflitto intergenerazionale si è innescato, la regista mette in piedi un quadro solo apparentemente semplice e “scanzonato”, un quadro dalla cornice intima e familiare che però rimanda ad un vissuto traumatico collettivo, un vissuto che spesso nella nostra contemporaneità si tende a rimuovere piuttosto che ricordare. Ed è qui che ravvisiamo il valore documentale di questo film.

Nel celebre libro Le candele della memoria della psicanalista Dina Wardi, che narra i segni lasciati dall’Olocausto anche sui discendenti dei sopravvissuti, si legge: “Uno cerca di strappare i fili che lo legano ad una vicenda precedente che non ha scelto a un fardello che non avrebbe voluto portare, ma non ci può riuscire”. Nel film notiamo una certa insofferenza con cui le giovani Valabrega si riferiscono alla propria storia familiare o meglio al modo in cui nella loro educazione storica, letteraria, sentimentale, sia stata data grande importanza alla storia della Shoah, alla memoria, alle testimonianze ai libri di Primo Levi, Anna Frank. Insofferenza che esprime senza dubbio il peso del fardello che le giovani Valabrega non avrebbero voluto portare, ma portano. Il peso di una memoria che si vorrebbe non avere, ma si ha, e si testimonia con la semplice propria esistenza nel mondo. E come stanno al mondo le sorelle del film? Litigiosamente.

Le riprese descrivono caratteri certo non arrendevoli, ma puntigliosi spigolosi ricchi di numerosi chiaroscuri. Il sarcasmo, l’ironia sono qualità utili a sopravvivere. Probabilmente questo attaccamento alla parola a quella detta nel modo sbagliato, come a quella non detta mai, segue il solco di un dramma irrisolto, una lite che non ha potuto esprimersi, chissà, forse tra Bruno, Ugo e i loro genitori. Nelle parole della bisnipote si ravvisa, nel gesto dei genitori di allontanare i figli da Roma per salvarli, una forma di angoscia dei due figli, come se fossero stati “abbandonati” da loro per questo. Attraverso i racconti, le lettere del nonno, le memorie di famiglia tramandate dalla nonna, emergono come scie da seguire, accenni di costellazioni familiari e sistemiche che spesso portano alla luce proprio questo genere di dinamiche nascoste o sfuggenti alla nostra comprensione razionale. La spiegazione sembra essere proprio che spesso senza volerlo e senza saperlo, perpetuiamo nel nostro sistema familiare un particolare legame con destini e vissuti di altre persone, anche di generazioni precedenti.

E così risuonano ancora più forti le parole del padre della regista che a un certo punto si domanda e ci domanda “Chi deve essere punito per questo (per la Shoah)? Chi è il responsabile?”. E in effetti dai dialoghi dei componenti di questa famiglia emerge forse una rabbia antica non risolta, e la domanda, sempre la stessa, si riversa su ciascun componente della casata, chi è il responsabile del mio malessere? Chi sarà punito per il mio senso di ingiustizia subita maturato nel profondo? Domande che dal privato si riversano sul sociale, assumendo un valore universale e collettivo. Domande che soprattutto oggi, alla luce di negazionismi imperanti e rimozioni di interi capitoli di storia dalla memoria collettiva, val la pena di porsi, ancora una volta.

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