“Un anno e mezzo fa quando mi hanno invitato a Santiago del Cile per una conferenza l’Ambasciatore italiano mi raccontò una storia che io in teoria conoscevo già, ma che essendo una storia di 45 anni fa avevo dimenticato. Una bella storia italiana di cui andare fieri e orgogliosi, perchè alle volte i singoli fanno la differenza. L’11 settembre del 1973 quando un colpo di Stato militare troncò bruscamente il governo di Allende, due giovani diplomatici italiani si trovarono di fronte ad una realtà nuova, persone perseguitate che scavalcavano il muro dell’ambasciata chiedendo asilo politico. Così questi due uomini presero una decisione al volo, la migliore che potessero prendere”.

Con queste parole Nanni Moretti ha introdotto domenica sera la proiezione di Santiago, Italia in Cineteca, in una sala gremita di gente di tutte le fasce di età. Un pubblico composto e garbato, che ha ascoltato in silenzio la generosa introduzione fatta dal regista al suo nuovo film e che ha poi accolto la proiezione con un lungo e caloroso applauso, un pubblico tutt’altro che “di merda” come quello giustamente sbeffeggiato dal regista nel 1981 nell’ormai epico spezzone del suo Sogni d’oro.

Perché poniamo l’accento sul pubblico? Perché con il suo ultimo film Nanni Moretti abbandona la finzione e torna al documentario, fa una scelta di regia assai chiara e lampante, ha qualcosa di forte da dire e sceglie di dirlo in modo semplice, e diretto, per arrivare ad una platea più ampia possibile, per evitare distorsioni o dispersioni del suo importante messaggio. “Mi chiedevo perchè ci tenessi così tanto a voler raccontare questa bella storia italiana di accoglienza…poi ho capito… perchè purtroppo oggi un gran pezzo della società italiana va in direzione contraria ai sentimenti di accoglienza solidarietà curiosità verso gli altri”. Dunque la scelta è quella di uno strumento immediato, divulgativo per antonomasia (il documentario) per veicolare un messaggio positivo (che cosa di buono abbiamo saputo fare in passato), innegabile frutto della visione soggettiva dell’autore (siamo stati vicinissimi al Cile di Allende e questo fu un bene).

Dunque giammai “imparziale”, come rivendica lo stesso regista nell’unico fotogramma in cui passa davanti alla telecamera, precisando la sua posizione con uno degli intervistati, uno dei malos dei “cattivi” appartenenti alla milizia di Pinochet. Moretti gira con estrema naturalezza questo film, come fece 28 anni fa con La cosa, documentario che illustrava il dibattito interno tra i militanti comunisti all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Lo fa puntando la telecamera fissa sui volti di “persone che parlano”, perché, ammette, “non volevo esibirmi, non volevo fare una occupazione militare del fotogramma come fa Michael Moore, volevo restarmene garbatamente al mio posto”.

Disegna in tal modo una linea di congiunzione ideale tra Santiago del Cile e l’Italia, sceglie la narrazione di un episodio emblematico del passato cileno per raccontarci qualcosa del nostro presente. Ma sono anche altre le traiettorie che traccia con il suo racconto allo stesso tempo lineare e potente. Attraverso le memorie dei protagonisti intervistati emerge il ritratto generazionale di chi ebbe 20/30 anni negli anni ‘70 prima nel Cile di Allende e Pinochet e poi in una Italia intrisa di cultura marxista, e infine, per un parallelismo implicito, emerge l’assenza delle giovani generazioni dallo scenario politico e di impegno ideologico e sociale.

Per certi versi Santiago, Italia si presta ad una lettura nostalgica (benché girato con una incredibile vena di ironia e scevro di patetismi), il come eravamo di una generazione protagonista di una straordinaria storia di solidarietà Italia-Cile, che guarda sconfortata al deserto culturale e ideologico dello scenario nazionale odierno. È uno degli ultimi intervistati a sottolineare questa terribile differenza tra il passato e il presente della nostra collettività, del nostro “pueblo”: “Sono arrivato in un Paese che somigliava al Cile di Allende e oggi l’Italia somiglia invece sempre più al Cile peggiore… e la cosa più brutta è l’individualismo”.

Individualismo che viene come esorcizzato dall’ultimo fotogramma del film, il concerto di una banda cilena, che ci regala un’ulteriore inaspettata reminiscenza, quella di un altro film documentario che pare condividere intenti e ispirazione con Santiago, Italia: si tratta di Piazza Vittorio di Abel Ferrara, un altro film sociale, realista e umanista, che poneva l’accento sulla perduta dote di accoglienza del popolo italiano. Evidentemente una ribalta che merita di essere accesa su qualcosa che non abbiamo più o che stiamo irrimediabilmente perdendo.