Luci e ombre di un teatrante di professione

“Ombra. Canzoni della Cupa e altri spaventi”: il concerto di Vinicio Capossela al Teatro Europauditorium di Bologna – 1 marzo

Il pubblico in sala attende l’inizio dello spettacolo cullato dal sottofondo del verso di un gufo in loop. Il gufo, anche lui creatura della Cupa viniciana, al calar della notte, con l’avvento delle tenebre diventa presente e vivo, ci sembra quasi di vederlo volare in sala. Le tenebre, l’ombra sono lo scenario scelto per rappresentare questa seconda parte del suo album “Canzoni della Cupa”, e allo stesso tempo l’ombra, ne è la protagonista assoluta. Ombra intesa come altra faccia della medaglia, prodotta inevitabilmente da un corpo esposto alla luce, e dunque inesistente senza di essi: senza il corpo e  la luce ad illuminarlo. Lo dirà lo stesso Vinicio dal palco , alla fine del concerto, abbandonandosi ad una pura esegesi dell’ombra: è sorella dell’oscurità, ma in qualche modo non la contiene tutta, l’ombra non è il buio nero pesto, e come tale mantiene in sè una qualche speranza in più.

I corpi sono quelli di Vinicio, dei suoi 10 orchestrali e dei tecnici delle luci che fanno brevi incursioni sulla scena, le luci sono quelle magistralmente progettate da Daniele Ravan, allo scopo di farci vedere e toccare quasi con mano le mille ombre prodotte e citate “a mezzo di ombrografi, generatori d’ombre a valvole e manuali”, ombre cinesi, veli, specchi proiettori, oggetti di scena, copricapo, corone di spine capaci di creare effetti speciali di grande respiro.

Così dal punto di vista visivo nulla da eccepire a questa mastodontica messa in scena di un concetto, di un’atmosfera. Nel rappresentare i brani dell’ultimo disco come La bestia nel grano, Scorza di mulo, La notte di San Giovanni, Maddalena la castellana, Vinicio Capossela riconferma la sua (seconda) grande vocazione di teatrante, uomo di spettacolo, ammaliatore: sa carpire l’attenzione del suo pubblico, mettendo in scena uno spettacolo ipnotico. Le canzoni diventano quasi un pretesto, passano in secondo piano le melodie e i significanti, possiamo anche non afferrare tutte le parole del testo, a tratti delirante, che sottiene alle tracce dell’album: ciò che conta è il suo significato, è assistere allo spettacolo, essere rapiti dalla sua atmosfera, lasciarsi andare a questa rievocazione di riti profani e tradizione della sua Irpinia contadina. Ciò che Vinicio aveva iniziato a fare più di dieci anni fa con canzoni come il Ballo di San Vito o Al veglione qui è portato al culmine: il suo studio filologico della tradizione letteraria e musicale del Mediterraneo, gli sposalizi, le mietiture, il mondo agricolo, animale e quello mitologico, la rievocazione di antichi miti da Tiresia alle Sirene, la sua sete di conoscenza e la volontà, tipica dei grandi aedi, di riportare queste suggestioni sotto forma di canzoni alla grande massa del pubblico. Tutto condito da un lavoro di sonorizzazione certosino, ragli di muli, grugniti di maiali, sospiri, venti e urla.

Questa la sua luce, l’intenzione. Ma, inevitabilmente, sul tutto è calata un’ombra. L’ombra della cupa, forse. Se dobbiamo essere sinceri, non possiamo non ammettere che davanti a questa esilarante operazione teatrale, capiti di sentirsi spersi e provare un toccante moto di nostalgia per il Vinicio che fu. Per le melodie, i testi, poetici, ma efficaci, di tutti quei brani (comprensibili) che ritornano nella seconda parte dello show e che ci fanno intravedere un artista diverso, più umano, meno “bestiale” e assetato di riferimenti intratestuali, una luce accecante in mezzo a tutte le più recenti ombre, la luce di Scivola vai via, Modì, Amburgo. Ci perdonerà il grande artista per questo sfogo, consentito forse solo in qualità di suoi fedelissimi fan. E’ vero che, come dichiara Vinicio, “viviamo nell’illuminazione violenta e artificiale, abbiamo perso i mezzi toni”, ma a volte una suggestione non basta. E la sua musica, quando vola più in alto dell’ombra a nostro parere è lì che tocca la poesia.

Certamente però è riconfermata la generosità dell’artista, che regala 30 minuti di bis al pubblico dei suoi seguaci, pescando alcuni dei brani più notoriamente amati del suo repertorio: Che cos’è l’amor, Stanco e perduto (dedicata al suo pigmalione, il manager Renzo Fantini, il primo a credere in lui), Caminante. E infine , (immancabile) ciliegina sulla torta, l’omaggio a Lucio Dalla, nel giorno del 5° anniversario della sua scomparsa, con la personalissima versione di Itaca (generata insieme al celebre aedo cretese Psarantonis). Fa sorridere l’affettuosa ironia di Capossela nel ricordo di Dalla: “Uno dei colleghi che non è mai venuto a vedere un20170302_000608_HDR_resizedo dei miei concerti…ma forse è stato meglio così che non ci conoscessimo, forse le cose grandi è meglio osservarle con rispetto da lontano anche se sono piccole di statura” . Capossela si congeda dai suoi spettatori dichiarando: “non ho idea dei sogni che farete stanotte, ma state tranquilli…Yung diceva che i sogni sono la parte di noi con cui dobbiamo ricongiungerci, per non essere solo frammenti di noi stessi”. Non abbiate paura delle vostre ombre dunque, e a tal d’uopo nell’androne del teatro una simpatica trovata: l’installazione di uno “shadow cabinet” nel quale ciascuno spettatore è invitato a sedersi per ritrovare, fotografare o solo fare conoscenza con la propria ombra. “Perdere l’ombra è perdere l’anima…è passare dal neon accecante della vita al nulla della morte. Abbiamo bisogno della nostra Ombra per farci interi”.