“L’ordine delle cose” e il sud del mondo

Girato quasi come un film documentario (grazie alla purezza e spontaneità delle immagini e ad una narrazione dettagliata e giornalistica della realtà) L’ordine delle cose è una pellicola fortemente politica, nella misura in cui porta sotto i riflettori dei mass media e dell’opinione pubblica una questione, quella dell’immigrazione “clandestina”, tanto abusata quanto mai esaminata sotto la corretta prospettiva. Andrea Segre ha dichiarato sulla genesi del film: “L’ordine delle cose non sempre è quello che noi vorremmo. A volte la soluzione di un problema, come diceva mio padre che era uno scienziato, dipende dalla definizione che di esso viene data”. Così Segre ha girato un film di scrittura, tra il mare della Sicilia (Mazara del Vallo) e la sabbia assolata della Tunisia, che si pone come obiettivo quello di ridefinire i contorni di una delle questioni più scottanti di oggi: l’immigrazione.

Dalla legge Turco – Napolitano in poi passando per il terribile peggioramento della Bossi – Fini la politica italiana (sulla scia di quella occidentale ed europea in genere) ha concepito un sistema binario che semplicemente impedisce ai migranti di attraversare in modo legittimo i confini nazionali o di stabilirsi altrove. Essi possono solo “scegliere” tra diventare clandestini o chiedere asilo. Ma non viaggiare liberamente. Questo è un privilegio riservato ai cittadini di un Nord del mondo posto sempre più in contrapposizione con il Sud del mondo. I cittadini del Nord, come il protagonista del film Paolo Pierobon/Corrado salgono e scendono da aeroplani che gli fanno fare il giro del globo in poche ore che sia per lavoro, studio, diletto o ricongiungimento familiare. Mentre ai cittadini del Sud dello stesso mondo non è riconosciuto il diritto, in primis, alla stessa legalità del viaggio, ma vengono gettati in pasto alle “agenzie dell’orrore guidate da trafficanti senza scrupoli” che scendono quotidianamente a patti e in affari con i nostri esimi Governi.

Questo è il cuore pulsante del nuovo importante film di Andrea Segre, presentato a Venezia e meritevole di una anteprima speciale in Senato durante la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, grazie alla collaborazione con alcune delle più importanti organizzazioni internazionali (Amnesty International Italia, NAGA, Medici per i Diritti Umani,Medici senza Frontiere, ZaLab, Banca Etica).

Corrado/Paolo Pierobon è un alto funzionario del Ministero degli Interni (ex poliziotto) specializzato in missioni internazionali a tema immigrazione irregolare. Viene scelto dal Ministro per portare a casa un arduo risultato: trovare il modo (tramite accordi con i poteri, legittimi o meno, locali) di contenere il flusso migratorio che dalla Libia riversa i suoi sbarchi sulle coste italiane, perchè “la gente non ne può più di sbarchi”. Le trattative intavolate dal funzionario sono tante quante le forze in campo con cui trattare, la realtà libica post-Gheddafi rivela le molte facce e avverse correnti con cui confrontarsi. La missione si complica inevitabilmente nel momento in cui Corrado infrange un dictat indispensabile per far bene il suo lavoro: entra in contatto con una dei migranti, ascolta la sua richiesta di aiuto e da quel momento, da quando una ragazza somala smetterà di essere numero manifestandosi come persona con un nome (Swada) ed una storia, entrerà in gioco la coscienza dell’uomo Corrado a guastare i piani dell’ irreprensibile funzionario.

Il cast prevalentemente Veneto (Citran, Pierobon) sembra un omaggio all’antica potenza di Venezia Città Marinara, dominatrice del Mediterraneo, in questa pellicola dove la storia del potere, dei poteri locali e del loro spregiudicato esercizio si intreccia a doppio filo con la violazione dei diritti e con le vite degli esseri umani, che siano vite di serie A (i corpi del Nord Globale, come sono definiti da Igiaba Scego) o di serie B (i corpi del Sud globale) quelli dei migranti che fuggono da guerre e povertà.

La rappresentazione filmica procede lenta nella sottolineatura di un accettabile contrasto fra la miseria e la disperazione delle moltitudini di genti ammassate nei centri di accoglienza disumani, centri che, come dice una delle guardie, “hanno l’odore di Africa” e la vita di lusso del funzionario, antica gloria del fioretto, appassionato di playstation, chiuso nel suo acquario insieme ad una famiglia sotto vetro, un lavoro altolocato e boccette di sabbia raccolte sulle spiagge del mondo e collezionate come trofei ad ogni nuova missione. Ma la Libia “non è il solito Paese sfigato dell’Africa”, qui il potere è tribale, è una cosa seria  le varie fazioni si fanno la guerra da sempre e per sempre sarà così, dice il personaggio di Luigi/Battiston a Corrado. E in Libia non tutto andrà come deve andare, le cose rischiano di incrinarsi per un attimo e prendere una strada diversa. Ma è il libero arbitrio a fare la differenza, sempre anche quando la lotta è interna e si combatte nella dicotomia tra funzione professionale e intimo/privato.

Per un attimo nel film ci sono le chiamate via Skype tra la migrante e il funzionario che sembrano dirci che un avvicinamento è possibile, rendono l’altro meno estraneo a noi, meno lontano e meno “indietro”, da numero diventa persona, e come tale ha dei progetti, dei sogni “quando arriverò in Finlandia leggerò tutti i libri del mondo”.

Non sono solo disperati questi migranti, sono persone che vogliono vivere, leggere, studiare, amarsi, viaggiare e viaggiando arricchirsi di esperienze. E noi che facciamo? Alziamo i muri dell’intolleranza e dell’indifferenza e vogliamo chiuderli lì, proprio lì dove sono nati perchè non vengano a disturbare la nostra apparente quiete. Ma quella dell’Europa, del Nord del mondo, non è quiete è già morte. Una morte lenta che si impossesserà del nostro mondo se non lasciamo che l’altro venga a noi. Perchè? Perchè siamo un popolo vecchio, il più vecchio del mondo con il 6,5% della popolazione di ultraottantenni, un declino demografico da paura e oltre centomila italiani (giovani per lo più) fuggiti all’estero nell’ultimo anno (2016). Loro sì, ancora possono farlo.

E, come spiega bene Ilvo Diamanti nel libello diffuso durante la proiezione del film in sala, “insieme ai nostri giovani se ne va anche il nostro futuro” per cui ecco cosa ci insegna L’ordine delle cose: iniziamo a cambiare prospettiva sui migranti e a pensare in termini opposti a quelli odierni, non a come respingerli o contenerli, bensì a come trattenerli nel nostro Paese, per produrre ricchezza (e pensioni ad esempio), per rinnovarlo, per aiutarlo non per essere aiutati.

 

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