L’incerto limbo di “Ride”

Ride, esordio alla regia di Valerio Mastandrea, presentato in anteprima al Torino Film Festival, ha un po’ il sapore di una poesia scritta da chi poeta non è, un testo confezionato con la diligenza dovuta da un esordiente, ma al quale, ahimè, manca quella finale sapienza capace di limare gli eccessi retorici e far arrivare il messaggio dritto al cuore dello spettatore.

Carolina (Chiara Martegiani, compagna del regista “scoperta” da Amici della De Filippi) è una giovane donna che si prepara a vivere il funerale di suo marito. Fa colazione con suo figlio Bruno (Arturo Marchetti) come sempre, ma questo sarà un giorno diverso dagli altri, perché è quello che precede la funzione con cui dovranno accommiatarsi dal marito e padre, un operaio morto “di fabbrica”, morto sul lavoro. Prendendo le mosse da una morte bianca, e collocando la sua storia in un contesto dai contorni chiaramente politicizzati, Mastandrea confeziona un film intimista che si sofferma (forse anche più del dovuto, 135’ quando ne sarebbero bastati 60’) sul dettaglio di una lacrima che non arriva.

La vedova Carolina infatti anziché buttarsi sul pavimento a piangere disperata la morte del suo uomo, si aggira per la casa vuota con un pacchetto di kleenex in mano, senza riuscire ad esprimere il suo dolore: è ammutolita bloccata congelata dalla sorpresa di una morte che è giunta all’improvviso e senza possibilità di repliche. Nello stesso tempo sono varie le reazioni e i modi di affrontare il dolore del figlio Bruno, che si allena a sostenere l’intervista che rilascerà alla stampa accorsa ai funerali, e del padre del defunto, un ottimo e ruvido Renato Carpentieri, nei panni di un vecchio operaio col rimpianto delle lotte di classe della sua generazione.

Usando la camera come un riflettore sulle piccole cose, che si muove, nell’arco di una sola giornata, tra le mura domestiche di una famiglia turbata dalla morte, il regista prova a dare uno spessore tangibile e fotografico (con carrelli in avanti e laterali) all’incapacità di esprimere i propri sentimenti Siamo afflitti da un demone che è un prodotto sociale: la difficoltà di entrare in contatto con le nostre emozioni“.

Muovendosi da un presupposto iniziale interessante, però il film approda ad un esito deludente, poiché si riduce troppo spesso a una retorica banale dei sentimenti, rafforzata da immagini dalla poesia ormai scontata e facilona, veri e propri topoi della poeticità che irritano anziché emozionare: il vecchio padre ripreso di spalle con lo sguardo rivolto alla distesa marina, la vedova che finalmente si lascia andare al pianto e “inonda” la casa di una pioggia di lacrime liberatoria, poi riparata dal figlio con un ombrello di fortuna. Le numerose metafore, come la “visione” finale non riescono a fondersi in modo armonico nella storia, ma rischiano di scadere in un sentimentalismo posticcio.

La difficoltà di Carolina a piangere il suo morto si rispecchia esattamente nella incapacità ad immedesimarsi in questo lutto da parte dello spettatore, che, per inciso, del morto conosce poco più del nome. La quasi totale assenza di descrizione del personaggio di Mauro Secondari, il morto appunto, ci allontana da una possibile commozione per la sua perdita. Non sappiamo cosa lui fosse per suo figlio per esempio. Pochi particolari sul suo ruolo di padre e marito. Questa assenza narrativa non ci permette di entrare appieno nel dolore dei protagonisti pur comprendendone la portata.

Restiamo quasi impassibili davanti allo scorrere del film, distaccati e confinati in un incerto limbo che ci abbandona in bilico tra un singhiozzo abortito e un sorriso appena accennato per via delle battute non sempre convincenti del copione. Un copione che, infine, avrebbe potuto essere interamente interpretato dallo stesso Mastandrea, al quale un merito va di certo riconosciuto: è stato capace di infondere il suo imprinting recitativo a tutti gli interpreti del film senza distinzione di sesso o età, tutti misurati e asciutti come lui, ironici nella sofferenza e sofferenti nell’ironia. Nel bene e nel male. Una ridondanza eccessiva per un primo film da regista, forse. Oppure una vera traccia di autorialità? Nell’incertezza attendiamo gli sviluppi di un talento che potrà forse meglio esprimersi al prossimo tentativo di regia.

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