L’avventura produttiva di “Luci del varietà”

“Un film che diventerà famoso” era lo slogan pubblicitario del primo film di Federico Fellini come regista, diretto in collaborazione con Alberto Lattuada e persino coprodotto dai due in virtù di un accordo basato su una forma di cooperativa. In realtà sin dall’inizio Luci del varietà non ebbe troppa fortuna.

Come ricorda Cosulich in Storia del cinema italiano, i due registi, animati da un gran desiderio di autonomia, si rivolsero dapprima alla Lux, con la quale Lattuada, dopo anni di collaborazione, stava vivendo un periodo di forti contrasti. “Quando parlammo di questa idea a Ponti – ha ricordato Lattuada – ci disse che il soggetto non andava, era un argomento che non funzionava. Noi andammo avanti lo stesso”. Così dopo il rifiuto della Lux Lattuada decise di autoprodurre il film. Su soggetto di Fellini, fu elaborata la sceneggiatura con la collaborazione di Pinelli e un non accreditato Flaiano.

Per la produzione Fellini e Lattuada crearono una cooperativa composta dai due registi, con le rispettive mogli e da John Kitzmiller (il trombettista Johnny nel film) che si associò al 35 % con la Film Capitolium di Mario Ingrami, ed in cui essi investirono molte sostanze personali (cfr. Fellini T. Kezich). Trascinati dall’entusiasmo dell’impresa, anche altri interpreti, tra cui Peppino De Filippo, pur non entrando direttamente nella cooperativa, accettarono di lavorare percependo la paga minima sindacale. Il film cambiò tre volte titolo da Figli d’arte a Piccole Stelle fino al definitivo Luci del varietà, fu girato negli stabilimenti Scalera a Roma con esterni a Capranica e le riprese si chiusero nell’agosto del 1950. La storia produttiva della pellicola fu travagliata non solo dalla povertà dei mezzi (uscivano spesso dai preventivi), ma anche da una concorrenza “sleale” che si concretizzò nel mentre della lavorazione. Ponti, dopo il rifiuto della proposta di Fellini e Lattuada, decise di realizzare un film sulla stessa tematica (forse aizzato da Fabrizi che riteneva di aver subito un plagio del soggetto), mettendo in produzione Vita da cani (di Monicelli e Steno) con Aldo Fabrizi, la Lollobrigida “e una turba di belle ragazze”. Fu una gara all’ultimo ciak, a chi arrivava per primo nelle sale.

Finite le riprese a complicare le carte arrivò il fallimento della Fincine, cui era affidata la distribuzione della pellicola, cosa che determinò una perdita di tempo notevole per l’uscita del film in sala. Oltre a questo ci fu un altro contrattempo che penalizzò Luci del varietà, ossia la decisione della commissione ministeriale di assegnare al film soltanto il contributo del 10 per cento (per “minimi requisiti tecnici ed artistici”), rifiutando la concessione di un ulteriore 8 per cento. In seguito a ricorso contro tale decisione alla fine il contributo fu riconosciuto, ma nel frattempo la prima proiezione scalò (al 6 dicembre del 1950) di oltre due mesi rispetto a quella del film “concorrente”. Il film fu un fiasco commerciale, incassando circa 177 milioni di lire, una performance molto più modesta rispetto a all’exploit al botteghino di Vita da cani.

Questo incise negativamente sia sui patrimoni personali dei due registi che sul loro rapporto di amicizia e collaborazione. Come riportato ne L’avventurosa storia del cinema italiano di Fofi-Faldini, Luci del varietà, segnò la fine della lunga collaborazione tra i due registi (datata dall’immediato dopoguerra), generando l’annosa questione della attribuzione della regia del film. Lattuada non si capacitava del fatto che Fellini gli avesse in qualche modo “rubato la paternità del film” alimentando l’idea che Luci del varietà fosse più un film suo.

Fellini intervenne più volte sul tema, con dichiarazioni spesso contrastanti: “Luci del varietà l’ho ideato e sentito come un film mio; c’erano dentro ricordi, alcuni veri, alcuni inventati, di quando giravo per l’Italia con una compagniola di rivista. Erano i primi appunti cinematografici su una certa provincia intravista dai finestrini delle terze classi o dalle quinte di teatrini fatiscenti, in paesetti arroccati su cocuzzoli ventosi o annegati nelle nebbie di tetre vallate. Il film lo dirigemmo in due, Lattuada e io: Lattuada con la sua capacità di decidere, con la sicurezza professionale dell’esperienza, col fischietto, il cappelluccio da regista; era lui che diceva: motore, azione, stop, via tutti! Silenzio! Io stavo al suo fianco in una situazione comoda di irresponsabilità” (F. Fellini, Fare un film)

La critica si è spesso dilettata ad intervenire sulla questione cercando di intercettare nella pellicola le rispettive peculiarità dei due registi. Dando luogo ad una vera e propria caccia all’autore, cosa è sicuramente attribuibile a Fellini, cosa appartiene a Lattuada. Per alcuni sono ascrivibili a Fellini “la sequenza notturna, un’anticipazione delle famose notti della dissipazione, da I vitelloni a La dolce vita, mentre sono di Lattuada le sequenze finali e la definizione psicologica dei personaggi”, per altri c’è più Fellini “nel campo lungo delle scene dell’alba, nella sequenza del dormitorio pubblico e nella figura del suonatore di tromba” mentre il resto è “la secca obiettività di Lattuada”. Secondo la diretta testimonianza di Bianca Lattuada le scene certamente girate da Fellini furono solo tre: “il malinconico allontanarsi della compagnia dalla casa verso la stazione all’alba, l’incontro con il trombettista nero nella notte romana ed il risveglio all’albergo dei poveri”, ricordando che “la presenza di Fellini sul set era piuttosto dimessa, non andò mai in sala di montaggio ed abbandonò il set alcuni giorni prima della fine delle riprese”.

Probabilmente se nella percezione comune Luci del varietà resta un film più felliniano lo si deve al fatto che il soggetto della pellicola resta senza dubbio un topos narrativo di Fellini: il mondo della rivista e il suo declino,  gli artisti come vagabondi, poveri e sconosciuti in cerca quasi più di cibo che di gloria, il capocomico molto più sensibile al fascino femminile (“di gambe come quelle della Maresca”) che al vero talento, i viaggi nella ritirata dei treni per mancanza dei soldi con cui pagare il biglietto per tutti. E infine ciò che è sicuramente felliniano, al cento per cento, è lo sguardo compassionevole di Melina Amour/Giulietta Masina sul mondo, maschile, dello spettacolo.

Melina contiene in nuce Gelsomina, Iris, Cabiria, Giulietta, Ginger. È la donna buona, compagna accogliente e premurosa, somministra la “Rodina Montecatini” a Checco per guarirlo dalla sua febbre, gli sistema il bavero della giacca prima di andare, gli presta tutti i suoi risparmi per ripartire, anche se con un’altra donna. Melina è il porto sicuro a cui rientrare dopo una tempesta amorosa. È il caffè e le arance presi gomito a gomito in treno durante dichiarazioni di intramontabile affetto, mentre il fidanzato strizza l’occhio ad una nuova soubrettina.  Eppure, non dimentichiamolo, questa immagine sublime e sottomessa di donna felliniana, non fu mai accreditata da Giulietta Masina, che, invece, a proposito di Giulietta degli spiriti diceva “Io non sono mai stata sottomessa a nessuno, fin da bambina ho quasi adottato i miei genitori. Giulietta l’ho affrontata come un’inconscia difesa mia, di quello che sarei potuta diventare se non avessi avuto questo carattere. Ma ti pare che io facevo andare via mio marito così, senza neanche una parola, senza neanche avere il gusto di una spiegazione? Altro che lasciarlo andare, io gli avrei spaccato la testa.” (F. Fellini, Giulietta)

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