Il cadavere nudo di sua madre 60enne viene ritrovato in riva al mare con indosso solo un paio di slip rosso fuoco, troppo “ricercati” per lei. Avrebbe potuto iniziare così nel 1995 uno dei film più belli di Mario Martone (“straordinario ritratto di donna” a detta di M. Morandini) se l’Amore molesto fosse stato un semplice noir o un thriller a tutti gli effetti. E invece, siccome l’Amore Molesto è una pellicola che mescola tenacemente generi cinematografici (noir, thriller, melodramma) e loro grammatica, inizia con un flashback e i ricordi ingialliti (virati al seppia) di Delia (Anna Bonaiuto) che saranno i veri protagonisti dell’intreccio.

L’idea drammatica del film non è tanto incentrata sulla morte misteriosa di Amalia, madre di Delia magistralmente animata dallo sguardo di Angela Luce (David Donatello come miglior attrice non protagonista), quanto piuttosto sul lento riaffiorare di un vissuto rimosso della protagonista, grazie al confronto vivo e presente con il fantasma della mamma improvvisamente scomparsa. Infatti attraverso uno spazio che si fonde in maniera pregnante con la storia narrata, uno spazio che è Napoli, in quanto madre, nido originario, con i suoi vicoli intrecciati, le folle invadenti di persone, la caotica metropolitana, un simbolico ventre materno a cui Delia cerca di tornare per scoprire la sua identità, lo spettatore s’immedesima nella sua storia, pedinandola scena dopo scena alla disperata ricerca di tracce della madre, oggetti, segnali della sua presenza carnale. Indagando un rapporto madre figlia che non era idilliaco, anzi, e allo stesso tempo anche quello della madre con il suo corpo e del corpo delle donne con gli uomini, di Delia stessa con il suo sesso e con l’altro sesso, emerge il racconto di una relazione conflittuale, tormentata, tempestata di piccoli screzi, raccomandazioni mal sopportate (“Delia ‘a mammà hai chiuso buono il rubinetto?”), baci schivati, premure percepite come asfissianti (“Delia ‘a mammà il caffè, Delia che vuò mangià a mezzogiorno? Quello che vuoi tu Mà”), pregiudizi (“Ho sempre pensato che mamma fosse una poco di buono”) e incomprensioni. Un rapporto che, scopriremo, è però lo specchio di un trauma rimosso, della non elaborazione di ben altro lutto interiore.

Il ritmo del film diventa man mano più concitato (e magistralmente sottolineato dalla traccia di Daniele Sepe Tarantella del Gargano) quanto più Delia si riavvicina all’essenza di una mamma sempre più sconosciuta ai suoi occhi, così come la verità che la riguarda più da vicino. Man mano che Delia osa toccare il suo passato, e si avvicina ad una completa identificazione con Amalia (nel finale del film scarabocchia la sua carta di identità allungandosi i capelli per averli lunghi come la mamma), le immagini ci raccontano una trasformazione della protagonista interiore ed esteriore, e Martone lo fa prima di tutto con uno strumento che è scenico e teatrale, il costume. I vestiti di Delia, i suoi abiti di scena cambiano via via che la sua identità si trasforma, Delia dismette i suoi vecchi abiti grigi, il tailleur, la giacca e gli occhialini tondi di vetro, per indossare i panni di Amalia, l’abito rosso attillato e scollato, il corpo sinuoso che finalmente si lascia intravedere, così come la verità della sua vita pare prendere il sopravvento nello stesso istante in cui le si rompono gli occhiali, una lente si infrange. Delia è costretta a vedere il mondo coi suoi occhi nudi, abbandonando la mediazione distorsiva di oggetti o ricordi errati.

Così come gli oggetti sono simbolici nel film e gli abiti hanno una funzione narrativa, anche l’aspetto della carnalità fisica, è molto presente nella pellicola di Martone. La fisicità è tangibile così come la presenza della madre per Delia, dappertutto, in pubblico e in privato, in metro dove Delia viene palpata da un passante quando indossa il vestito rosso tutta bagnata dalla pioggia (“fatte asciuttà” le dice), o nei flashback di vita privata in cui si espone la violenza casalinga del padre, che alzava facilmente le mani sulla moglie per gelosia, o nei pestaggi del presunto amante di Amelia, Caserta/ De Caro.

L’amore molesto è un film tanto intenso quanto la sua capacità espressiva è concentrata sui dettagli: fotogramma dopo fotogramma è come se il film si caricasse di una potenza significativa sempre più eloquente. Nulla è lasciato al caso davanti alla macchina da presa. Ciascuna messa in quadro comunica una scelta ben definita del regista, ogni linea per lo più obliqua delle immagini ci sta dicendo qualcosa, ci invita a riflettere sulla verità che non è mai una linea retta, ma spesso un collegamento da tracciare tra due angoli seduti su lati opposti della stessa storia.

“I fantasmi dopo la prima notte fanno solo quello che gli diciamo noi” è una frase che Delia dice alla vicina e con essa ci vuol dire che è possibile superare il lutto della morte e la paura dell’ignoto se prendiamo possesso di noi stessi e della nostra identità. L’amore molesto dopo 23 anni torna sul grande schermo restaurato e a nostro avviso resta un film da non perdere, uno di quei film capaci di scolpirsi nella mente dello spettatore e di scavare una tacca profondissima nel suo immaginario. Un film che ha il merito inestimabile di essere fatto da un uomo e parlare con tale intensa verità dell’esser donna, in moltissime sue sfumature: madri, figlie, mogli, amanti, vittime, ribelli.

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