La guerra senza filtro dei Samouni

Quanti di noi conoscono la storia di Gaza? Quanti davvero fra gli spettatori distratti di un telegiornale e i lettori disinformati dei quotidiani sanno cosa succede quotidianamente nella vita delle persone che convivono con la guerra fra Israele e la striscia di Gaza? Mentre i nostri figli sono impegnati per anni a studiare a menadito a scuola i fasti e i movimenti colonizzatori di antichi Greci e Romani, tutti i giorni nel mondo si consumano vite umane tra bombe e macerie di una attualità sconvolgente, quanto ignorata.

La potenza del film di Simone Massi e Stefano Savona è proprio in questo suo travolgente movente: mostrare allo spettatore occidentale, probabilmente poco predisposto al tema, come si vive (e si muore) in guerra o meglio come gli esseri umani, le donne i bambini, possono sopravvivere alle atrocità della guerra, continuando a vestirsi mangiare dormire disegnare o bere tè, nonostante tutto, a vivere.

Il punto di vista adottato dal documentario, girato con una tecnica mista che mescola le riprese dal vero ad animazioni a graffito in bianco nero di Massi (un lavoro maniacale al ritmo di mezzo secondo al giorno per alcuni anni), è quello dei palestinesi. In particolare l’io del racconto è affidato ad una bambina, Amal, sopravvissuta miracolosamente al bombardamento che causò 29 morti nella sua famiglia, la famiglia dei Samouni, contadini della striscia di Gaza, estranei ad ogni partito, ma colpiti orrendamente dalla operazione Piombo Fuso del gennaio 2009, conclusasi con 1305 morti palestinesi di cui 417 bambini e 120 donne. A raccontare la storia di Amal, che si dichiara da subito “Incapace di raccontare storie”, come invece era bravo suo padre, ucciso sotto gli occhi dei suoi cari durante l’attacco degli israeliani, intervengono le voci di un po’ tutti i superstiti della famiglia (madri, cugini, fratelli), costruendo un racconto corale in prima persona collettiva capace di esprimere appieno una voce fin’ora forse da noi inascoltata: quella dei civili palestinesi stremati dalla seconda intifada. Civili spesso usati come scudo dalle truppe israelite per conquistare i propri obiettivi militari.

I Samouni sono una famiglia allargata, vivono legati alla terra ed alle loro piante (il sicomoro raso al suolo dai bombardamenti, i 4 ulivi sopravvissuti, le lattughe miracolosamente scampate alla distruzione, la malva tanto amata dai propri morti) quasi come alle persone, perchè dalla madre terra e dai vegetali, simbolo supremo di vitalità, traggono la forza per resistere ad ogni nuovo lutto, l’alimento per sopravvivere, il guadagno per sostentarsi.

Il film è costruito in una oscillazione tra passato e presente (il passato animato dai disegni), che lentamente prepara lo spettatore alla “guerra in diretta” vista dall’occhio del mirino, dopo una lenta introduzione empatica in quelli dei protagonisti. Attraverso i racconti della loro vita, le nenie, le preghiere, i poveri pasti, i desideri per il futuro e le speranze (sì, le speranze, perchè l’uomo non finisce di sperare nemmeno attraversando morte) lo spettatore è messo nelle condizioni di “entrare nei loro panni”, vivere una identificazione totale con i protagonisti e dunque sperimentare la più inaccettabile ed agghiacciante realtà da loro vissuta nel momento in cui vengono sterminati. Savona usa le immagini degli attacchi ricostruite dal punto di vista di un drone in volo sopra la strada dei Samouni, per farci vedere la guerra nel momento stesso in cui accade, ed accompagna le stesse con la ricostruzione dei dialoghi dei militari (il comandante che ordina di fare fuoco sui civili e il soldato che si rifiuta di eseguire perchè “vede bambini”) tanto rigorosa quanto accertata da una apposita commissione di inchiesta aperta sull’accaduto.

I morti dei Samouni diventano martiri che i principali partiti politici di Gaza, da Hamas alla Jihad Islamica, provano ad accaparrarsi per fini di propaganda. Forse solo i morti hanno un valore in questa guerra, non solo per i rimborsi e le indennità che riescono a percepire, ma ancora di più per la cultura di vendetta e odio che essi possono alimentare a favore dell’uno o l’altro schieramento. A questo è attenta la madre di Mouhamud, il fratello di Amal, ad evitare di incoraggiare nel suo bambino l’odio per gli uomini che hanno ucciso suo padre. Perchè quest’odio è ciò che vuole la politica e che insegna. Perchè quest’odio fa imbracciare le armi agli orfani che vogliono vendicare le morti dei loro padri, dei fratelli. Non c’è retorica di guerra nel film di Savona, ma solo tanta verità. Una verità che fa male da guardare, fa sanguinare gli occhi, ma farebbe tanto bene alla coscienza civile di tutto l’Occidente se solo avessimo il coraggio di guardarla più spesso così, senza filtro.

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