“In the Name of Your Daughter” a Gender Bender 2019

L’infibulazione è una pratica di origine religiosa dal forte radicamento culturale. Per questo, per estirparla, è indispensabile un decisivo intervento non solo di tipo legislativo (in molti paesi è già reato), ma in particolare educativo e divulgativo, occorrono azioni capaci di diffondere a livello di culture e sottoculture locali, tribali, familiari, la consapevolezza che si tratta di una pratica che viola i diritti delle donne, una pratica che nulla ha a che vedere con la presunta rispettabilità morale delle spose. Amnesty International ha stimato che oltre 140 milioni di donne in tutto il mondo sono state colpite da una qualche forma di mutilazione genitale, e che oltre 3 milioni di bambine siano a rischio ogni anno: la mutilazione genitale praticata soprattutto in Africa, ma anche nel Medio Oriente, in Indonesia e Malaysia, è presente in una trentina di paesi africani, in un lembo di terra che si estende dal Senegal all’Etiopia e dall’Egitto alla Tanzania.

Ed è proprio in Tanzania che Giselle Portenier, giornalista e filmaker, specializzata in tematiche relative ai diritti umani (ed in particolare di donne e bambini) ha scelto di girare il suo necessario film documentario In the Name of Your Daughter.  Nonostante in Tanzania l’infibulazione sia vietata per legge, ogni anno centinaia di bambine (in età scolare) continuano ad essere mutilate, tagliate, private di parte dei loro genitali da “cutters” che molto spesso sono i loro più vicini parenti, madri, padri, zii, nonne.

Una donna sola in Mugumu, circoscrizione rurale della Tanzania situata nel distretto di Serengeti, Rhobi Samwelly ha intrapreso la sua personale battaglia contro questa pratica antichissima, lottando in particolar modo per modificare l’arcaica cultura che la ospita. Rhobi, mamma Rhobi per le bimbe, ha fondato a Mugumu la “Safe house”, una specie di paradiso in terra dove le bimbe del circondario possono correre a rifugiarsi durante la “pericolosissima” stagione dei “tagli”, nel mese di dicembre, fuggendo dai loro cari.

Il film della Portenier ci fa entrare nel vivo delle storie delle sue protagoniste, di cui ci fa assaporare da subito quotidianità e sentimenti, concentrando la macchina da presa sui primi piani dei volti e degli occhi lucidi di queste bambine a cui le stesse famiglie, colpevolmente, minacciano di rubare i sogni. Molte di loro sono fuggite dalle case materne quando hanno appreso che sarebbero state “tagliate”. Come un miracolo nel buio di una cultura arcaica e patriarcale si accende la luce della consapevolezza in bimbe tra i 7 e i 12 anni, che intuiscono il pericolo della morte dietro alla promessa della mutilazione. Queste bambine sono chiamate a decidere per la loro vita in tenerissima età, e centinaia di loro, grazie alla dedizione di persone come Mama Rhobi, possono scegliere la fuga per salvare il proprio futuro, un futuro da “donne moderne”, donne capaci di dire di no al loro commercio come spose in cambio di una ventina di vacche.

Il documentario infatti non funziona solo perché esorta la partecipazione empatica dello spettatore alle alterne vicende di vita di queste piccole eroine (che salvano loro stesse e le loro epigone dalla barbarie della mutilazione). Portandoci a conoscenza dei singoli meccanismi emotivi che di famiglia in famiglia intrappolano le bimbe a dire di sì o a non dire di no per non essere rifiutate, abbandonate, disconosciute. Il film funziona anche nel momento di maggiore denuncia sociale, mostrandoci gruppi di uomini di queste comunità che giustificano e supportano la pratica infibulativa per un mero tornaconto economico. O perché la figlia data in sposa se infibulata vale più vacche (20) di una integra (solo 6 mucche), o perché una vera e propria micro-economia gravita intorno al cerimoniale della infibulazione, attorno a cui si arricchiscono sarti (per la creazione e vendita degli abiti da cerimonia alle famiglie), venditori di bestiame, capi villaggio (in termini di voti).  Quando gli uomini parlano in questo film esprimono la voce del padrone, la mentalità più antica ancorata allo sfruttamento economico delle persone di sesso femminile, siano esse figlie da dare in sposa, o mogli conniventi da usare per il proprio tornaconto familiare.

Mama Rhobi, invece, è descritta come una vera eroina, una donna moderna e controcorrente, capace, grazie alla sua iniziativa personale, di coinvolgere le autorità locali (dalla polizia alle autorità governative, dal capo-villaggio ai parenti stretti delle bambine) nella sua crociata anti/infibulazione, di trarre in salvo centinaia di bambine per ogni stagione del taglio e di insegnare loro una nuova cultura, cultura, se vogliamo, dai tratti proto-femministi nell’ispirazione: “Se qualcuno pensa di tagliare le vostre parti intime e farvi sposare, ditecelo, noi possiamo aiutarvi. Educate i vostri parenti, non state lì buone, siate forti e coraggiose. Rifiutatevi di essere tagliate”. Sono queste alcune delle esortazioni di Mama Rhobi alle sue bambine, parole che riecheggiano incredibilmente per chi guarda il film oggi a Bologna, i testi delle ultime affissioni di Cheap, il progetto di street poster art portato avanti da donne, che nel loro ultimo intervento sui muri di Viale Masini, recitano “Se sei donna e puoi votare/ divorziare/interrompere una gravidanza/andare all’università ringrazia una femminista”.

Ecco dopo aver visto In the Name of Your Daughter certamente uno dei sentimenti predominanti nello spettatore è la gran voglia di ringraziare Rhobi Samwelly per la sua opera di penetrazione culturale e Giselle Portenier per aver portato davanti ai nostri occhi una realtà mai così tangibile e vicina come in questa narrazione.

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