Il tenero sguardo di Amelio su luci e ombre dei rapporti umani

Gianni Amelio torna al cinema dopo un silenzio di tre anni con un film che è un ammonimento singolo e collettivo: singolo ossia rivolto a ciascuno di noi come individui, per ricordarci che non siamo soli su questa terra e che spesso la solitudine è una scelta dettata dalla nostra stessa incapacità di “comunicarci” al prossimo; collettivo, nel senso del valore sociale che il cinema può ancora avere quando è prodotto con sincerità scevra da retorica o da fini puramente di lucro.

La tenerezza è il titolo scelto per la pellicola che ha fatto parlare di sè per i “portentosi” incassi che l’hanno accolta tra il pubblico, come un atto di fede verso uno dei maggiori maestri viventi del nostro cinema, ma non il titolo del romanzo da cui è tratto il film. Il libro di Lorenzo Marone infatti, La tentazione di essere felici (2015), aveva un titolo che piaceva molto di più sia all’autore del romanzo che ai produttori del film, perchè più spendibile da un punto di vista di “richiamo al botteghino”, ma ha ceduto il passo alla Tenerezza di Amelio nonappena il regista si è “impossessato” del film. Amelio infatti, distaccandosi alquanto dai toni picareschi del testo originario, ha puntato ad ottenere un amalgama sentimentale che fosse più in linea con la sua ispirazione. Alberto Taraglio, co-sceneggiatore con Amelio del film, ha raccontato al pubblico dell’Arena Puccini di Bologna (ieri sera) della straordinaria cifra autoriale di Amelio manifestatasi sul set durante le riprese: “a volte non facevamo in tempo a riscrivere una scena che il Maestro la cambiava e ci chiedeva di riscriverla ancora da capo due minuti prima di girarla, quasi in diretta, per poter fermare su pellicola gli umori e le impressioni del momento, seguendo la strada che il film pian piano stava prendendo, senza imbrigliarlo in uno schema rigido e preconfezionato”.

La storia è ambientata in una Napoli (insolitamente) borghese, lontana dalle periferie e quasi silenziosa e vede come attori protagonisti Renato Carpentieri ed Elio Germano (già insieme sul set de Il giovane favoloso di M.Martone), Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, e, in un ruolo secondario, ma efficace come sempre, la cantante Maria Nazionale.

La tenerezza è la punta di un iceberg che si scioglie grazie ad una stretta di mano, ad un gesto o un sorriso empatico fra due esseri apparentemente soli su questa terra. La tenerezza è la speranza che rimane in fondo al tunnel della solitudine in cui un po’ tutti siamo relegati dalla nostra condizione di esseri umani incapaci di esprimere al prossimo, con sincera spontaneità, i nostri bisogni (di amore) e le paure (di non esser ricambiati e accolti).

Lorenzo (un Renato Carpentieri incisivo e memorabile, grazie ad una presenza scenica in forma quasi di “granitico moloch” immobilizzato nel gelido raffreddamento dei suoi sentimenti paterni e d’amore) è un avvocato ormai in pensione, celebre nell’ambiente dei truffatori partenopei per esser stato un tempo “il re dei parafanghi”, ossia il re delle truffe alle assicurazioni. Ha una casa, che dice non esser la sua. E una famiglia, una figlia, G. Mezzogiorno e un figlio, in conflitto, che dice di “aver smesso di amare un giorno”, perchè diventati adulti. Ha un nipotino, che va a prender da scuola in orario di lezione, (e di nascosto dalla madre, la figlia con cui non parla più da anni) pur di vederlo, che alla tenera domanda del nonno “ma tu mi vuoi bene?” risponde no. E, reduce da un brutto infarto, invece di restare in ospedale, torna a casa a vivere da solo. In questo quadro, già di per sè complicato, si innesta la seconda traccia del film, quella che in un primo momento ci vien presentata quasi come principale: la storia di un’altra famiglia, quella di Fabio/ Elio Germano e Michela/ M. Ramazzotti, una giovane coppia di trentenni apparentemente serena e innamorata. Famiglia che sarà presto disintegrata da un dramma familiare alla Manchester by the sea… In pochi fotogrammi e nello spazio di mezzo tempo, Amelio riesce in modo magistrale e senza troppe parole, come al suo solito, a cristallizzare l’essenza dei suoi personaggi in piccoli studiati gesti. Elio Germano con pochi sguardi spersi su giochi solitari (v. la scena in cui fa volare il drone senza coinvolgere il suo bambino nel gioco che tanto lo diverte) e giocattoli del suo infelice passato, fa rivivere il suo inascoltato bambino interiore, di cui capiamo presto, ci sarà da aver paura. Micaela Ramazzotti dipinge, d’altro canto, con poche pennellate di tenera ingenuità, e dolcissimi sorrisi di comprensione, il profilo, ancora una volta, vittimistico del suo personaggio, che finirà come sempre per soccombere davanti alla tragica e inaspettata cattiveria di chi la ama. Infine Giovanna Mezzogiorno, con l’ interpretazione più intensa che possiamo ricordare del coraggio di amare e perdonare chi non ci ha dato l’amore che ci aspettavamo, ci regala un preziosissimo barlume di speranza: l’amore, l’empatia e una relazione sono ancora possibili laddove ci sia la volontà di venirsi incontro e di vedere il nostro prossimo per quello che è: senza filtri buonistici o vagamente consolatori.

Gianni Amelio insomma ci regala un grande film, nel pieno stile della più grande tradizione drammatica italiana, forse oggi dimenticata e bistrattata dalle richiestissime commediuole senza infamia e senza lode che proliferano ai botteghini. Ma non solo italiana. Amelio con La tenerezza, per noi si avvicina incredibilmente a K. Loach o a M. Leigh, toccando l’apice di un racconto per immagini che si fa davvero arte e sentimento, ripulito da furbizie e occhiolini alla vanagloria mediatica. Il racconto, che alcuni spettatori in sala (probabilmente non avvezzi alla fruizione di tali capolavori) lamentavano procedesse troppo lentamente, è stato per noi dipanato con totale maestria e notevole sintonia con quelli che sono i tempi del cuore. Chi ha provato la solitudine almeno una volta nella vita, potrà riconoscersi e commuoversi davanti alle passeggiate solitarie e silenziose di uno dei personaggi nelle strade affollate di una Napoli quasi indifferente, o nei corridoi di tribunali ed ospedali freddi e spersonalizzanti. Il racconto di questa alienazione dai sentimenti e dalle relazioni più intime coi propri simili è condotto in modo talmente efficace e sincero, che lo spettatore ci mette un attimo a commuoversi davanti al gesto finale della pellicola: la stretta di mano padre/figlia, un contatto disperatamente voluto per anni, e invano, negato. Un contatto che abbiamo atteso per ore,durante la visione, e che, per fortuna e per amore, alla fine arriva. E ci consola.

Programmazione Arena Puccini 2017