Il sontuoso fascino di “Assassinio sull’Orient Express”

Confrontarsi con un grande classico di Agatha Christie e con il suo celeberrimo adattamento sullo schermo del 1974 firmato Sidney Lumet, deve essere stata una scommessa sicuramente allettante per un regista ed attore del calibro di Kenneth Branagh, già premio Oscar nel 1988 con l’Enrico V da lui diretto e interpretato, e affezionato a simili imprese di rilettura di grandi capolavori letterari, contemporaneamente a mastodontiche messe in scena di ispirazione teatrale (Hamlet, Molto rumore per nulla, Frankenstein di Mary Shelley). Ma il protagonista indiscusso di questo Assassinio sull’Orient Express è certamente il treno stesso e la rievocazione dello sfavillante turismo esotico che viaggiava a bordo dei suoi lussuosi vagoni nella tratta da Parigi la Gare a Costantinopoli (l’odierna Istanbul).

Correvano gli anni ‘30, e tra la risoluzione di casi impossibili, l’affinata arguzia nella disamina di meccaniche criminali ed una certa fissazione per l’equilibrio e la precisione in ogni cosa (dalle dimensioni perfettamente uguali delle sue due uova sode a colazione, al nodo alla cravatta di inservienti o sottoufficiali) Hercule Poirot non fa in tempo a dirsi in vacanza, che subito riceve un fonogramma da Londra che con urgenza lo richiama ad indagare su un nuovo caso misterioso.

Occupando l’ultimo posto libero sull’Orient Express, grazie all’intervento del caro amico Bouc (il capotreno interpretato da Tom Bateman), l’ispettore Poirot, una vera celebrità per i suoi coevi, da tutti riconosciuto grazie all’aspetto inconfondibile dei suoi mustacci (pare che Branagh ne abbia esagerato le dimensioni riallacciandosi all’ originale descrizione di essi fornita dall’autrice del romanzo), si trova presto coinvolto nella risoluzione di un delitto a bordo. Un uomo viene assassinato nella stessa notte in cui il treno deraglia a causa di una slavina, rimanendo così intrappolato nella neve, fino all’arrivo dei soccorsi. Tutti i passeggeri sono sospettati. Tutti paiono innocenti.

Il remake visivamente sontuoso di Branagh sembra fare a gara con il film di Lumet per la scelta dei protagonisti che andranno a comporre il suo cast “stellare” e a competere con il ricordo delle star che li precedettero nella medesima interpretazione: Penélope Cruz per il ruolo della balia/missionaria che fu di Ingrid Bergman, Willem Dafoe VS Colin Blakely/ Mr Hardman, Leslie Odom VS Sean Connery /Doctor Arbuthnot, Judi Dench VS Wendy Hiller/ Principessa Dragomiroff, Johnny Depp VS Richard Widmark /Ratchett-Cassetti, Josh Gad VS Anthony Perkins/l’assistente MacQueen, Michelle Pfeiffer VS Lauren Bacall/Caroline Hubbard/Linda Arden, Daisy Ridley VS Vanessa Redgrave/ Mary Debenham e così via.

La coralità della pellicola si riflette, oltre che sulla trama e sulle modalità di espletamento dell’omicidio, anche nelle immagini che, grazie all’uso di riprese aeree e/o panoramiche, e di carrellate infinite all’interno degli scompartimenti, sembrano volerci dare più punti di vista contemporaneamente. La cinepresa si ferma solo per pochi istanti quando immortala una soggettiva di Poirot, un indizio, un sospetto. Ma subito dopo riprende a camminare e muoversi seguendo la traiettoria orizzontale dei binari, l’unica possibile nel claustrofobico spazio del treno. La scelta di girare in formato 65 mm e la grandissima cura degli interni del treno e dei costumi d’epoca donano una definizione ancora maggiore e dettagliata alle immagini impresse.

Tale sontuosità rende Assassinio sull’Orient Express un film assai godibile per lo spettatore, perchè ricco di un fascino intrinsecamente legato alla sfera del visivo. Arricchito dalle originali trovate sceniche del regista, come l’ambientazione diversa di ciascun interrogatorio dei sospettati (uno in sala ristorante, uno fuori al freddo sulla neve davanti ad una tazza di tè, uno sul luogo del delitto), o l’inseguimento di un altro sui tralicci gelati di un mastodontico ponte, o la scena finale allestita come un’ultima cena. La trama originaria resta sostanzialmente invariata, a parte che per alcune leggere innovazioni introdotte per attualizzarla agli occhi dello spettatore moderno, come ad esempio nel caso degli accenni ad odi razziali e xenofobi verso comunità ispaniche o individui di colore (la figura del dottore impersonata da Sean Connery nella pellicola del ‘74 è qui affidata all’afroamericano attore di musical Leslie Odom).

Ancora una volta la messa in scena di Branagh ha una impostazione classica e teatrale, che coinvolge lo spettatore in un racconto lineare, anche se non così decisamente carico di suspence come invece era nell’originale di Lumet, più incentrato sulle tonalità noir del delitto e sul “doppiogiochismo” dei protagonisti che sulla figura di Poirot. Qui invece Branagh gioca un po’ da padrone e la sua interpretazione magistrale e innovativa del piccolo e baffuto ispettore sembra addirittura oscurare gli altri personaggi e interpreti del cast, donandogli però un fascino del tutto nuovo, che lo renderà persino attraente. Immortalando per la prima volta sugli schermi l’immagine di un ispettore Poirot dall’indiscusso sex-appeal.

Difficile dire se il suo Poirot esca vincente o meno dal confronto con le precedenti interpretazioni del personaggio, Albert Finney nel film di Lumet, o il l’indimenticabile Peter Ustinov di Assassinio sul Nilo, che hanno impresso nell’immaginario collettivo un ispettore sicuramente diverso da quello di Branagh, se non altro, appunto, per una questione meramente estetica. Di là un uomo di mezza età, basso e tarchiatello caratterizzato da due minuti baffi a ricciolo, di qua un ironico 50enne, ancora piacente, che si intrattiene con Dickens ed ha una capacità più di tutte a renderlo unico: quella di saper leggere nell’animo umano e discernere il cattivo dal buono, il bene dal male, nell’inseguimento di un costante equilibrio, quasi cristallino, nelle cose della vita.

Il Poirot di Branagh è protagonista della pellicola così come l’Orient Express: due miti in un colpo solo, al centro della scena. Mentre dalla coralità del cast emergono sicuramente le interpretazioni di Pfeiffer, sinuosa ed affascinante, Deep (riconoscibilissimo nella sua forte presenza scenica sin dal momento in cui compare, di spalle, al suo ingresso nel film) e della principesca Dench, mentre fa un po’ sorridere la versione “bigotta” e missionaria di Penelope Cruz.

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