“Il Principe libero” di Marinelli al cinema vale le 3 ore di film, ma il film vale Faber?

Luca Facchini, già autore del documentario su Fernanda Pivano A Farewell to Beat, si conferma regista dalla sensibilità letteraria anche nella direzione dell’accuratissimo biopic Fabrizio De André – Principe libero, proiettato sul grande schermo solo il 23 e 24 gennaio scorso, e prossimamente (13 e 14 febbraio) su Rai Uno in due puntate.

Nonostante l’origine televisiva dell’operazione resti incollata al film per moltissimi aspetti della sua natura, a partire dalla durata complessiva di 190 minuti, che proiettati in una sola serata (al cinema appunto) mettono sicuramente a dura prova la resistenza dello spettatore,  lo spettacolo conserva una indubbia godibilità nella visione. Non poco incide la colonna sonora del film, chiaramente dedicata ai grandi successi di Faber, disseminati per la pellicola come segni della presenza tutt’ora attiva dell’autore nelle nostre vite, ma anche in modalità narrativa, e cronologicamente associata al racconto delle immagini: La canzone di Marinella, Amore che vieni, amore che vai, La canzone dell’amore perduto, Il fannullone, La città vecchia, Le acciughe fanno il pallone. In alcuni casi le canzoni di De André che ascoltiamo sono una interpretazione di Marinelli stesso, che con grande coraggio si è cimentato in questa ulteriore impresa per spingere fino in fondo la sua rappresentazione del cantautore.

L’interpretazione personale e per nulla scimmiottante di Luca Marinelli resta il dato certamente più interessante e convincente di tutto il biopic. È come se l’attore avesse studiato Faber e lo avesse digerito e restituito in una dimensione tutta sua, nuova ma aderente, sintonica ma individualistica rispetto all’artista, non troppo contemplativa, ma piuttosto assertiva. “Questo è il mio De André” ha più volte dichiarato l’attore, come a difendersi da una aspettativa eccessivamente simbiotica da parte del pubblico dei fan di Faber, che ancora numerosi, si sono accalcati  nei cinema per accaparrarsi il biglietto per la visione evento del 23/24 gennaio. Infatti una è la domanda che continuiamo a farci sul grande successo di pubblico che il film ha da subito scatenato, ossia se gli spettatori siano stati attirati in sala prioritariamente dal fattore De André o piuttosto dal fascino di Luca Marinelli, che negli ultimi due anni da Jeeg Robot a Il Padre d’Italia fino all’exploit nel cinema d’autore con Una questione privata dei Taviani ha conquistato, convinto e sedotto una discreta platea fra pubblico e addetti ai lavori.

A giudicare dal numero di spettatori che in poltrona non resistevano a canticchiare sottovoce i grandi successi del maestro, potremmo pensare che l’operazione sia una riuscita prova di marketing sul fenomeno musicale De André, che ancora vende e conta un certo numero di fan. Ad ogni modo questo nulla toglie alla bravura di molti attori del cast, tra i quali spiccano Ennio Fantastichini (il padre), Elena Radonicich (nella parte di Puny, la prima moglie di De André) e Gianluca Gobbi nei panni di Paolo Villaggio, grande amico e tra i primi estimatori del poeta. L’incredibile somiglianza fisica di Gobbi a Villaggio (stazza, capelli, portamento) fa scattare nel film una interessante sensazione di omaggio nell’omaggio (a pochi mesi di distanza dalla scomparsa dell’attore), catalizzando l’attenzione sulle battute del Gobbi/Villaggio e sugli spunti di quest’altra biografia (come per esempio il fatto che i due figli degli artisti siano nati lo stesso giorno o che i due, attore e cantante, iniziarono a calcare le scene in coppia).

Sicuramente fondamentale è stato anche l’apporto di Dori Ghezzi, con cui Marinelli ha potuto confrontarsi per tenere la direzione giusta in questa difficilissima performance per la quale ha dichiarato: “Non avevo paura, ero terrorizzato. Tanto che mandai un messaggio ad uno dei miei amici più cari dicendo c’è la possibilità che interpreti De André e lui mi ha risposto ‘ma che sei matto?!’ Poi piano piano mi sono avvicinato al progetto, ho conosciuto Dori e lei ha pensato che io potessi farlo in una qualche maniera.”

Forse uno sforzo in più poteva essere fatto per approfondire il discorso letterario e della ispirazione poetica di De André, ma attribuiamo sempre alla destinazione televisiva (e dunque che ha bisogno di un facile appeal su un pubblico vasto), l’ inquadratura del personaggio De André all’interno dei canoni del bello e dannato, fumatore incallito (dipendente) e alquanto alcolizzato (anche se si tratta in effetti di dati biograficamente veri), oltreché indubbiamente interessato alle donne.

Poiché non era un’operazione facile da compiere raccontare in poco più di tre ore quarant’anni di storia di uno dei più grandi cantautori italiani, perdoneremo facilmente questa ed altre sbavature del racconto in una dimensione populistica…augurandoci che presto la vita di De André possa diventare anche un film per il cinema, ed essere affrontata con la dovuta profondità di prospettive, restituendo un po’ meno dell’uomo e un po’ di più dell’artista che era e che continuerà ad essere per molte altre generazioni a venire.