Gender Bender 2016: “La belle saison”

La pellicola con cui quest’anno si è aperta la rassegna cinematografica di Gender Bender, ha il pregio di raccontare una bellissima e travolgente storia d’amore (lesbico), ai tempi di un nascente femminismo tra il Sud della Francia e la metropoli parigina. Ma con la delicatezza e la passionalità proprie di una qualunque altra storia d’amore, vale a dire con una naturalezza propria solo dei grandi racconti quelli che, grazie alla magia dell’arte cinematografica, assurgono a simbolo di qualcosa di più.

1971. Delphine (interpretata da Izïa Higelin, faccia da india e occhi neri profondissimi, maggiormente nota in patria come musicista che come attrice) unica figlia in una famiglia di contadini, con conduzione di fattoria sulle spalle, fugge a Parigi per inseguire il sogno della sua emancipazione, sentimentale e finanziaria. Appena giunta in città, il destino la mette sulla strada di Carole (Cécile De France), bionda attivista parigina impegnata nella lotta per i diritti di autodeterminazione delle donne. Carole fa coppia fissa con Manuel, e vive tumultuosamente in prima persona gli inizi del femminismo. L’incontro tra le due donne sfocia presto in una irresistibile ed intensa storia d’amore che le metterà di fronte alla necessità di fare delle scelte assai determinanti per le loro esistenze.

La pellicola vincitrice del Premio Variety Piazza Grande al Festival di Locarno 2015 (e miglior lungometraggio al TGLFF di Torino 2016), colpisce per la forza e il coraggio della regista Catherine Corsini, nel raccontare l’intensità di un amore, a prescindere dal fatto che si tratti, per di più, di un amore tra donne, in tempi in cui il mondo, soprattutto quello contadino, non era ancora così pronto ad accettarlo.

Ripassando velocemente la filmografia di Catherine Corsini saltano subito agli occhi tre cose: il tema predominante dell’amore, lo sviluppo spesso sfortunato di passioni prepotenti, e l’importanza delle scelte personali sulla determinazione del proprio destino. Già ne L’amante inglese vedevamo una splendida e intensa Kristin Scott Thomas, alle prese con  una passione extraconiugale travolgente, che la costringeva a rinunciare a tutto pur di seguire la sua storia d’amore, poi ancora ne La répétition , dove ritorna il tema dell’amore saffico, vedevamo una  Emmanuelle Béart muoversi nei meandri di un intricato rapporto amicale con Pascale Bussieres. In tutte i film della Corsini, resta il minimo comun denominatore del forte amore per le donne, che esso sia espresso in termini di amicizia, love story o affetto genitoriale, l’amore delle donne è il vero protagonista e crediamo che in questa ultima pellicola esso trovi la sua più completa espressione.

Amore delle donne ed essenza femminile in tutte le inquadrature, in ogni singola scena di questo bellissimo film, dove nulla è scontato, e le donne che animano il suo affresco esprimono tutta la loro forza in azioni apparentemente ordinarie (far da mangiare per qualcuno che ami, lavorare nei campi, assistere i malati non autosufficienti e poi dedicarsi una tantum due minuti per sé mettendo su un disco e lasciandosi andare), ma per nulla scontate,  o in grandi gesti di altruismo e pro-cambiamento, come quelli delle femministe e delle omosessuali, che, con il loro coraggio spregiudicato hanno potuto cambiare le nostre vite regalandoci un po’ di luce laddove era il buio.

E proprio nei contrasti fotografici di luce e buio troviamo che si nasconda il sapore genuino e sincero di questo film. Le protagoniste possono lavorare e sudare insieme nei campi alla luce del sole del Sud della Francia, ma non possono amarsi se non nel buio della stanza dove trova respiro la loro passione. E quando il coraggio e la ribellione danno alle protagoniste la forza di affermare la propria identità amandosi alla luce della natura, il prezzo da pagare è la vergogna e la paura di aver infranto un tabù ancora troppo impronunciabile per essere attaccato. Le donne di Catherine Corsini sanno essere desiderate e vive come poche altre descritte da uomini, forse proprio grazie ad una matrice autobiografica di genere, che le caratterizza.

Così la regista, accusata più volte di penzolare sul burrone del melodramma più bieco, in cui la prevedibilità regna incontrastata, stavolta si afferma come autrice del grande amore e della passione travolgente, ma anche artigiana della messa in scena sublime delle singole vite che possono portare un cambiamento collettivo,  ossia della vita degli uomini e delle donne che, nella loro ineguagliabile unicità, si fanno storia di tutti e per tutti. Interessante ancora di più, infine, che in questa storia di amore il fuoco non sia tanto sul coming out verbale, sulle dichiarazioni di identità più o meno presunte di chi è o cosa è la protagonista, ma sulle azioni, che sono esse stesse l’unica affermazione realmente capace di fare la differenza.

“Ho fortemente voluto rendere omaggio alle femministe che sono state spesso vilipese, trattate come nevrotiche affamate di sesso… Io stessa non sono stata una vera femminista per anni, e non sono stata lontana dal condividere questa immagine di loro. Ma presto mi sono resa conto che molte delle conquiste di cui posso usufruire oggi, sono merito di donne che per questo si sono battute e impegnate. Molte di loro erano omosessuali. È innegabile che gli omosessuali hanno fatto molto per l’emancipazione delle donne in generale” (Catherine Corsini).

Francesca Divella

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