“Fellinopolis” e i reperti di un immaginario magico

Fellinopolis ossia la città di Federico restituisce al pubblico un importante frammento del mondo felliniano, la sua città, la città nella quale passò gran parte della sua vita, dove si sentiva a casa, la casa del cinema, Cinecittà e il “suo” teatro di posa preferito, il Teatro numero 5 (a lui intitolato dal 2013).

Il documentario di Silvia Giulietti, Fellinopolis appunto, è un prezioso lavoro di recupero oltreché una gran bella chicca cinematografica. Si tratta infatti di una sapiente opera di montaggio (con ritmo allegramente felliniano) dei preziosissimi Special – Backstage girati da Ferruccio Castronuovo su richiesta di Fellini sui set di Casanova, La città delle donne, E la nave va Ginger e Fred, documentando e rivelando gli elementi del “grande gioco”, le invenzioni e le “bugie” del regista, nella città immaginaria dietro le quinte dei suoi film, in un arco temporale che copre dieci anni dal 1976 al 1986. Special all’epoca utilizzati per il lancio dei film e conservati da oltre quarant’anni dalla Cineteca Nazionale.

Fellinopolis è il documentario che mancava su Fellini, la ricostruzione artistica e storica di uno dei miti del regista, uno dei suoi luoghi del cuore, fucina della sua creatività, il Teatro 5,  il posto ideale, l’embrione della magia felliniana, lo spazio da riempire con i mondi creati dalla finta realtà ricostruita al tavolino dell’immaginazione onirica del regista.

Le riprese di Castelnuovo sono intrinsecamente felliniane nei colori, nelle luci, nei suoni in presa diretta, nei punti di vista assunti per catturare le riprese. Come in uno specchio riflettono lo stile della regia felliniana e il sapore dei suoi set:  “Io volevo raccontare – confessa Castelnuovo – tutto il lavoro sul set dei film di Fellini, e mi son messo alla ricerca delle più belle inquadrature che potessi girare” (il rinoceronte del finale di E la nave va, il mare di cellophane). “Mi ricordo il momento terribile in cui Fellini si metteva a guardare il mio girato, si voltava, mi guardava e io timidamente sorridevo poi mi chiedeva ‘ma qui, dov’è che stavi? Dove ti eri messo?’”. Come in un caleidoscopio il girato dei backstage prende forma disseminando alla rinfusa, come piccoli frammenti colorati del circo felliniano, le immagini, le facce straordinarie, i costumi di scena, le prove, i ciak, i dietro le quinte dei balletti di Ginger e Fred, le interiezioni di Federico contro i suoi attori: “Non vi va come vi guardo? E allora non vi guardo più, va bene così?”.

In questo avvicendamento fantasmagorico di luci, colori, immagini e figure, si inseriscono le interviste ad alcuni grandi protagonisti della costruzione felliniana, Dante Ferretti, Lina Wertmüller, Nicola Piovani, ma anche Marcello Mastroianni (“la prima cosa che un attore dovrebbe saper fare, Marcello, è danzare” lo redarguiva sul set di Ginger e Fred, mentre Giulietta gli volteggiava attorno con leggiadria) e i bisticci con gli attori che erano ostaggi di Federico durante le riprese in balia dei suoi capricci, delle sue pretese eccentriche. Nando Orfei, lo zio Pataca di Amarcord, sottolinea il tratto perfezionista e a momenti ossessivo di Fellini, raccontando di aver dovuto girare per ventitré volte consecutive la scena del pranzo di famiglia, mangiando per davvero ventitré coscette di pollo, pur avendolo supplicato di poter solo fare finta “Federico posso magari fare finta, ne mangio solo un pezzetto… e lui ‘No tu la devi mangiare tutta!’”.

In assenza di un copione definito, nell’interregno dell’improvvisazione, la parola d’ordine era la più assoluta e coerente finzione di realtà. Del resto, come disse una volta Claudia Cardinale, “il genio di Federico era la capacità di trasformare la banalità in qualcosa di magico”. E di questa stessa magia è intriso il documentario di Giulietti, le cui immagini, riviste quarant’anni dopo esser state girate, brillano come reperti rari recuperati dal fondo del mare.