EDWARD HOPPER A BOLOGNA: L’UOMO MODERNO TRA INQUIETUDINE E SENSUALITÀ

Dopo poco più di un mese dalla sua apertura è già grande l’affluenza per la mostra di Edward Hopper a Palazzo Fava a Bologna, disponibile fino al 24 luglio 2016.

L’esposizione organizzata da Arthemisia Group (gli stessi di Escher e Brueghel a Palazzo Albergati, e della Mostra sulla Street Art Banksy & Co. sempre in corso a Bologna in questi mesi) in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio Bologna e Genius Bononiae, ripercorre la carriera del pittore attraverso 58 capolavori provenienti dal Whitney Museum di New York, custode di più di 3000 opere dell’autore ricevute in eredità dalla moglie Josephine nel 1968.

Suddivisa in sei sezioni tematiche e cronologiche la mostra va dagli anni di formazione e di studio nella sua città d’elezione, Parigi, dove entrò in contatto con il movimento impressionista, che lascerà evidenti tracce e influssi in tutta la sua iconografia, fino ai capolavori degli anni ’40 e ’50 ed alle immagini sempre più intense dell’ultimo periodo (anni ’60).

Per i soggetti ritratti, ma soprattutto per le ambientazioni insolite e per gli attimi di vita comune colti nei suoi dipinti, Edward Hopper fu considerato tra gli autori più innovativi della tradizione realista d’oltreoceano, nonché cantore dell’America rurale o della middle class contrapposta a quella neoclassica e benestante della grande metropoli. La sua è una umanità ritratta sotto la spietata luce dell’alienazione, che traspare dai chiaroscuri e dal gioco di luci e di ombre che spesso comunicano più dell’immagine stessa di per sé.

Hopper è arrivato alle masse grazie alla sua capacità di rappresentare ciò che risultava inesprimibile a parole, ossia, una sorta di solitudine esistenziale insita nella stessa natura dell’essere umano. Ed ecco apparire nei suoi quadri le pompe di benzina abbandonate, le donne seminude in attesa, davanti ad una finestra o a una porta aperta, le scalinate come soggetto dell’inquadratura, i letti disfatti , gli sguardi rivolti all’orizzonte in attesa di chi o cosa non si sa. Punto interrogativo di cinematografica natura. Mille le circostanze di una possibile risposta. Molti considerano Hopper il precursore di una pittura americana che fino a quel momento aveva vissuto della luce riflessa dall’Europa. “È raro che il nome di un artista si trasformi in un aggettivo”, come scrive Luca Beatrice, curatore della mostra, “capace di rendere l’idea dello stile e del linguaggio dell’artista stesso”. Quando questo accade significa che nelle sue immagini l’artista è stato in grado di trasporre il suo io stesso e tutta la sua poetica, dandogli dei connotati ben visibili, precisi e addirittura inconfondibili. Ecco quando siamo di fronte ad un quadro che è metafisico e minimalista, freddo ed essenziale e che ci dà l’impressione di un netto realismo, allora saremo di certo di fronte ad un’ opera hopperiana.

I quadri di Hopper sono la breve messa in scena di un attimo, istantanee che hanno influenzato il cinema e la fotografia. Wim Wenders, grande estimatore dei suoi quadri, ha detto di lui di essere attratto dalla violenza dei suoi quadri, “la violenza è questa sensazione che tutto possa essere sconvolto da un momento all’altro”.La mostra ha inizio con l’autoritratto dell’artista, un Hopper 18enne, appena entrato alla Scuola d’Arte, che nonostante l’impostazione tradizionale (si autoritrae come un pittore dell’800), pone lo sguardo fisso in camera, cosa che rivela il suo amore per il cinema. Un punto di vista moderno.

Primo dipinto ad attirare la nostra attenzione è Stairway at 48 Rue de Lille, Paris (1906), un olio su tavola, che immortala scegliendo un soggetto inanimato e deserto, la solitudine umana insieme ad un certo senso di suspense, dato dal modo in cui le scale sono ritratte come in soggettiva, si tratta di “piccole intime esplorazioni di spazi interni della sua abitazione”(L.B.). Ritrae la solitudine di queste stanze chiuse e l’impressione che qualcosa potrebbe accadere, qualcuno potrebbe entrare dalla porta in secondo piano. Questa capacità di suscitare il senso di suspense fu uno dei motivi della grande influenza che le immagini di Hopper esercitarono su autori del cinema del calibro di Alfred Hitchcock, che si ispirò, come tutti sanno, ad un quadro di Hopper per la sua casa di Psyco.

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Una delle rarità della mostra è il quadro Soir Bleu (1914): esposto nel 1914 e poi mai più fino alla sua morte nel 1967. Si può quindi considerare la “chicca” di questa esposizione. Si tratta del primo grande dipinto di Hopper, che qui immortala un sentimento di introversione e riflessione. Purtroppo non fu accolta bene dalla critica e fu screditata da parte della cultura conservatrice e nazionalista dell’America di allora, e secondo L. Beatrice, porta con sé elementi di Toulouse Lautrec e Degas come il palo usato per tagliare la scena, che a metà quadro divide gli spazi. I personaggi del dipinto, a parte la prossimità fisica, non hanno molto in comune. Si tratta di uno tra gli olii più grandi che Hopper abbia mai realizzato.

Nei dipinti Summer Interior, New York Interior e nell’incisione Evening Wind il tema del voyeurismo è molto sviluppato. Il primo quadro trasuda emozione e sensualità e la luce che è usata in chiave simbolica a sfiorare il piede della donna ci racconta l’assenza di qualcuno o qualcosa. Nel secondo, insieme al pittore, ci par di spiare la donna seduta di spalle sul letto e vestita da ballerina (come in un dialogo diretto con Degas): par rammendare qualcosa per mezzo di un filo invisibile. E infine la sensualità più potente trasuda dai chiaroscuri dell’incisione Evening Wind dove la tenda spostata dal vento assurge a simbolo di intimità e la sensualità più profonda è espressa dalla raffigurazione del vento che penetra nella stanza della donna dalla finestra, come se fosse questo stesso il desiderio della protagonista ritratta.

Interessante la sezione dedicata ai disegni fatti per lo più con il carboncino contè, come lo Study for girly show dove Hopper si concentra sulla procacità di una spogliarellista, prendendo in prestito per il disegno, il corpo della moglie Jo che posò per lui nonostante un recente battibecco e nonostante la sua età ormai avanzata, oppure lo Studio per ufficio di notte nel quale si respira una forte tensione sessuale dovuta alle forme della donna fasciata in un vestito striminzito, vista di spalle (come sempre) e capace di attirare l’attenzione di una specie di investigatore privato intento a sfogliare il suo giornale. Lo studio è un luogo chiuso, scelto come ambientazione in maniera non così usuale per l’epoca, rivelando la passione di Hopper per gli interni, squarci di case, uffici sommessi e inesplorati, visti come a “volo d’uccello” dall’alto di un aeroplano o di un treno invisibile. Scorci di interni dimessi.

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La mostra si chiude con Second Story Sunlight del 1960 dipinto da Hopper a 76 anni, una delle sue ultime opere e una delle più grandi. Scelta come immagine della mostra bolognese, ad essa è stata dedicata un’ultima stanza nella quale, grazie ad un videoproiettore e ad una riproduzione su poster, i visitatori possono finalmente portarsi via un pezzo di Hopper scattando l’unica foto consentita, quella di sé stessi seduti accanto alla giovane donna bionda del quadro, sul patio, fuori dalla villa dal tetto rosso protagonista di questo immenso ultimo scorcio dei grandi spazi e delle case solitarie hopperiane. Per un attimo, magico, entriamo anche noi a far parte del suo mondo misterioso, sulla testa un cielo azzurro perfetto, in petto la solita irrequietudine che si respira nei suoi quadri. Cosa si staranno dicendo le donne? Cosa cercheranno? Mentre scattiamo quest’ unica istantanea consentita cerchiamo noi stessi insieme all’autore. E ripensiamo ad alcune sue parole in una intervista: “Forse non sono troppo umano, ma il mio scopo è solo quello di dipingere la luce del sole sulle pareti di una casa”.

[Immagini per gentile concessione di Arthemisia Group]