Aperti al pubblico è il primo mediometraggio documentario di Silvia Bellotti, architetta romana classe 1982, già vincitore del premio del Pubblico al Festival dei Popoli 2017. La macchina da presa della regista sembra entrare nell’ufficio comunale dello IACP (Istituto autonomo per le case popolari di Napoli) sulle sue proprie gambe, tanto si confonde lo sguardo della cinepresa con la soggettiva di uno qualsiasi degli utenti fotografati.

Dalla prima immagine di Aperti al pubblico, che incornicia nella sua fotografia il vecchio archivio cartaceo strabordante di fascicoli archiviati, possiamo respirare non solo l’atmosfera, ma persino la polvere, il pulviscolo atmosferico, l’odore stantio di ciò che è vecchio e immobile in alcuni (troppi) uffici della Pubblica Amministrazione. Ciò che incide tutti i giorni sulla nostra banale o disperata quotidianità. Gli impiegati di questo ufficio aperto al pubblico due soli giorni a settimana dalle 8 alle 13, a Napoli, si sottopongono all’occhio impietoso della telecamera come fosse la cosa più naturale del mondo, e in nessun momento i loro sguardi o le osservazioni tradiscono la presenza di terze persone sul set. Perché il film che gira la Bellotti è una ripresa dal vero, che non tradisce mai la sua vocazione ad essere sguardo sulla realtà e ci mostra in maniera lampante e quasi disarmante cosa possa voler dire oggi, sostenere uno “sportello aperto al pubblico”, in un contesto come quello della provincia di Napoli, per una utenza della fascia sociale più bassa, quella degli assegnatari di alloggi popolari.

L’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli è un ente fondato nel 1908 con la missione sociale e morale di soddisfare il fabbisogno abitativo di Napoli del suo hinterland, attraverso la costruzione di case del popolo e gestisce oggi più di 40.000 alloggi presenti in città e nella provincia. Gli uffici dello IACP, nel quartiere Chiaia, sono il palcoscenico del quotidiano incontro/scontro tra i volenterosi impiegati – cui spetta il gramo compito di applicare leggi, regolamenti e protocolli con imparzialità (sotto organico per giunta)– e frotte di utenti (dal bassissimo grado di alfabetizzazione) che ogni giorno presentano casi di complicata soluzione e spesso varia umanità.

Una vedova chiede di aggiungere al suo nucleo familiare la figlia, anche se non è molto interessata dall’esito della pratica perché desidererebbe solo raggiungere il marito al cimitero, il giovane 42enne tatuato vorrebbe aggiungere al suo nucleo familiare la compagna appena rientrata dal Belgio, ma non può perché non è egli stesso ancora assegnatario dell’alloggio che occupa “senza titolo”, una vecchia lamenta il fatto che una vicina di casa del dodicesimo piano si sia arbitrariamente inserita nel suo stato di famiglia, contro la sua volontà e sotto minaccia di morte. La signora del Bangladesh, è quella che parla l’italiano più corretto di tutti e ha i modi più garbati… è allo sportello per chiedere l’intervento dei tecnici per lavori di ristrutturazione urgente da fare al suo alloggio, reso invivibile dall’umidità e dai calcinacci che cadono dal tetto. La signora ha quattro figli (due cardiopatici) e un marito e il problema del Comune è dove mandarli a stare nel frattempo che si svolgono i lavori? “Signora non ha amici da cui andare a stare per un po’”?

Uno spaccato non solo di vita quotidiana, ma dei quotidiani cavilli burocratici e dei meccanismi farraginosi della PA quelli che da secoli paralizzano il nostro Paese: questo è il miracolo del film di Bellotti, riuscire a rendere visibile ciò che resta invisibile ai più. La tragedia della povertà unita alla sordità della PA. Alla lentezza degli ingranaggi che non scorrono, anche quando ad oliarli ci sono poche persone di buona, buonissima volontà. Le vite restano incastrate tra i fogli, tra i protocolli che per essere registrati devono veder trascorrere giornate intere di lavoro, i moduli devono esser trasportati di qua e di là dagli impiegati, da una sede all’altra dei pubblici uffici, lungo corridoi e scale fino all’ufficio competente e lì ci sarà un’altra fila da rispettare, un altro sportello a cui bussare, e come in un girone dell’inferno tutto avrà inizio ancora una volta e il tempo scorrerà infinito, l’attesa si moltiplicherà per minuti, ore, giorni fino ai 15 /20 anni della signora che reclama affannata, “io non vado via di qua se non mi assegnate la mia casa, sono nata qui, mio figlio è nato qui, mia madre è nata e morta qui e la casa non è ancora nostra”.

Lo stesso immobilismo della cosa pubblica non risparmia nessuno né utenti né impiegati, vivono tutti accomunati dalla medesima condanna, gli uni a perorare le loro istanze senza risposta, gli altri a fare da cuscinetto tra cancellerie vecchie trent’ anni e dirigenti che li “usano” per assorbire il contraccolpo emotivo del front office e voltare le spalle ancora una volta ai soliti problemi che resterebbero senza risposta. Se non fosse per la buona volontà degli impiegati, Emilia, Maria, Sergio, Salvatore, piccoli eroi del fare che come soldati restano a combattere in trincea anche quando ogni speranza pare perduta e se proprio le cose si mettono male, non dimenticano di offrire persino un caffè ai loro utenti, per rendere più accettabile l’interminabile attesa che qualcosa cambi.

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