Amina Sboui e la sua lotta per le libertà

Chi è Amina Sboui? La foto di Amina Sboui a seno nudo ha fatto il giro del mondo. Una ragazza tunisina di appena 18 anni si mostrava così, con un messaggio tatuato sul corpo: ”Il mio corpo mi appartiene”. Era l’1 marzo 2013 e Amina, pubblicando la sua immagine su Facebook diventava la portavoce del pensiero di un’intera generazione, la sua, quella dei giovani che stavano “agendo” la Primavera araba: reclamando più libertà in un paese tenuto in pugno dagli integralisti islamici.

Da quel momento Amina diventa una militante femminista, aderisce al movimento FEMEN, (da cui poco dopo si dissociò accusandolo di islamofobia), ma non solo, Amina si batte per la libertà d’espressione, in un paese, la Tunisia, dove essere gay è reato, e dove la cultura dominante scaglia la sua violenza senza remore contro chiunque non si adegui alla “educazione convenzionale”, sia che si tratti di donne “non corrispondenti all’ideale di perfezione” tramandato, sia di gay o travestiti.

Upon the Shadow ci offre uno spaccato sulla vita di Amina, dal momento in cui è tornata a vivere in Tunisia (dopo un “esilio” temporaneo a Parigi), posa uno sguardo intimo e diretto sulla sua vita quotidiana, in una casa in affitto, pagata dalla casa editrice, da lei trasformata in una sorta di comune, accogliendo gli amici della comunità LGBT, “reietti” dalle famiglie e dalla società: in Tunisia le relazioni omosessuali sono punite con tre anni di reclusione, se essere Gay è un reato, il coming out ti rende la vita impossibile.

Girato da una giovane regista tunisina, Nada Mezni Hafaiedh (33 anni), il documentario è uno spaccato di vita toccante e veritiero reso tale dalla coesistenza di un doppio registro di tonalità utilizzate per metterlo in scena, una drammatica e introspettiva, l’altra disperatamente allegra e scherzosa. I protagonisti non mentono davanti all’obiettivo, sono costretti a tirare fuori il loro vissuto più intimo e doloroso, senza falsi pudori né inutili pietismi, ma solo per riconoscere diritto di cronaca alla sofferenza che viene inferta con violenza agli individui LGBT da una società omofoba e dalle famiglie stesse, che pur di continuare a far parte di essa, trovano più facile rinnegare i propri figli.

Upon the Shadow arriva dritto al cuore, perchè nonostante  sia costruito così bene da scorrere piacevolmente come un film di finzione, è capace di dare voce ad una autenticità inaudita, la telecamera insegue “ferocemente” i suoi soggetti, in bagno, in cucina, durante una sbornia, o una danza liberatoria, addirittura dopo un episodio di autolesionismo, o nel mentre di un tentato suicidio. La scelta della regista è di mettere in campo tutto quello che succede, senza una epurazione dei momenti più forti o più drammatici, non lascia tregua a i pedinati come non la lascia allo spettatore, il suo compito è di denunciare lo status quo, e ci riesce benissimo con somma onestà.

Il personaggio di Amina è delineato come quello di una “sorella dei reietti” che ha scelto di vivere la sua vita in maniera rivoluzionaria laddove rivoluzionario è un gesto semplice come denudarsi in pubblico, o baciare chi si ama. Amina è finita in carcere per aver scritto la parola “Femen” sul muro di un cimitero, ma come dice l’esponente delle Donne democratiche tunisine, dovremmo interrogarci sulle vere ragioni per cui Amina è stata arrestata. In Tunisia l’omosessualità è un reato come l’amore e questo non è giusto, Amina non riesce ad accettarlo e si batte per un mondo libero dai pregiudizi, in cui il punto di arrivo non sia la tolleranza, che di per sé come parola è molto brutta se si considera la sua radice latina nel senso del “sopportare”. Il punto di arrivo sperato da Amina e da tutta la sua tribù è quello di una libertà omnincomprensiva, libertà di essere quello che si è, senza doversi nascondere dal mondo e in primis ai propri genitori, senza dover essere “sopportati” appunto. Una società libera da omofobie, sessismi, xenofobie, odio e violenza.

Upon the Shadow è un film manifesto che si fa portatore di un messaggio forte di lotta e speranza, proprio come il corpo di Amina Sboui e tutta la sua vita immolata alla rappresentazione libera di questo corpo. La cornice scelta per la rappresentazione di quella che pare essere una utopia in nuce, ha anch’essa un forte valore simbolico, si tratta del mare, il mare come culla di civiltà, il mare come madre capace di accogliere i suoi figli e allo stesso tempo come riva segnata dai solchi delle barche che, per quei figli, sono capaci di promettere un futuro non così lontano, sulle sponde di altri paesi magari, ma pur sempre possibile. Il mare, cantano in coro gli amici di Amina, “il mare ride, ma ha una ferita incurabile e la nostra ferita non è ancora guarita”.

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