Affrancarsi dallo sguardo paterno. “Maledetta primavera” e l’emancipazione adolescenziale

“Che fretta c’era/Maledetta primavera?/Che fretta c’era/Se fa male solo a me?”

Parafrasando il testo della hit di Loretta Goggi (anno 1981) che dà il titolo al film potremmo riassumere il senso del primo lungo della documentarista Elisa Amoruso, scrivendo che non c’è fretta di crescere quando l’adolescenza si tramuta in una metamorfosi dolorosa, che fa male solo e soprattutto a chi la vive.

Scegliendo una ambientazione spiccatamente eighties per raccontare la sua storia (con chiare reminiscenze autobiografiche) la Amoruso non fa altro che sottostare ad una moda contemporanea dettata dalla nostalgia, imperversante nei primi decenni del nuovo millennio, per gli ultimi venti del precedente. Corsi e ricorsi storici, potremmo dire. O si tratta di pura, ingenua nostalgia? Mentre l’ambientazione scenografica prende forma tra una lambada (con gonnellino giallo striminzito) e un I like Chopin (altra indimenticabile hit dei Gazebo), tra un walkman e un poster del Tempo delle mele, un Sì Piaggio e una Polaroid, ci domandiamo quanto essa sia funzionale e determinante o semplicemente decorativa e accattivante, acchiappalike.

In questo fondale italico vintage dal sapore rassicurante prende forma la storia di Nina (Emma Fasano) undicenne dalla vita relativamente incasinata, alle prese con la tipica confusione adolescenziale, accompagnata da crisi identitaria e sessuale, scoperta del piacere, e cacciata dal paradiso della prima infanzia, grazie anche al contributo della crisi di coppia dei suoi poveri e, a tratti inetti, genitori. Dopo un rapidissimo trasloco dal centro di Roma ad un quartiere periferico e degradato, da una scuola laica ad un istituto religioso, Nina fa i conti con il difficile compito di crescere e doversi riambientare, farsi dei nuovi amici, conoscere, attraverso essi, anche sé stessa.

Strattonata impercettibilmente nel suo ruolo di figlia tra gli eccessi malinconici e scorati della madre piena di rimpianti (una Micaela Ramazzotti molto fedele a sé stessa e a certi ruoli tipici a lei più congeniali) e le stranezze di un padre (l’eccentrico Giampaolo Morelli) affettuosissimo, ma peterpanesco, che si arrabatta tra un impiego in Enel e mille lavoretti di dubbia legalità, tra l’amore per la famiglia e il richiamo della bisca. L’ombra del migliore Virzì insomma aleggia per tutto il film come una sorta di benedizione ambita dalla regista per autorizzare il suo bisogno di raccontare ancora una volta il romanzo di formazione di una adolescente, in chiave pop, e, in questo caso particolare, anche omo.

Amoruso riesce nel suo intento, anche se forse non completamente, grazie alla capacità di fotografare con immediatezza leggiadra i battiti del cuore, gli sguardi incantati e le esitazioni timorose che solo in quel tempo di mezzo abbiamo il diritto di vederci concesse. Negli sguardi scrutatori e dubbiosi di Nina c’è molto di Caterina va in città, così come nella mamma Ramazzotti, nella consueta cantatina in auto andando verso il mare, c’è tanto della Anna Michelucci de La prima cosa bella, e nelle dinamiche fra adolescenti si riflettono altre storie come quelle di Ovosodo. Ma non per forza la presenza di questo humus è da considerarsi come un difetto o un limite.

Potrebbe essere letto invece come un pregio nella misura in cui la seguace virziana s’affranca anch’essa dallo sguardo paterno. Troviamo la cifra di questa emancipazione proprio nel modo in cui la regista riesce a non scadere nel melenso (appena un attimo prima di precipitarvi), o nella prospettiva rispettosa del corpo femminile (non oggettificato) con cui riprende le pulsioni sessuali delle due giovani protagoniste. Protagoniste, l’esordiente Emma Fasano nei panni di Nina, e l’attrice francese Manon Bresch in quelli di Sirley, che danno entrambe una grande prova attoriale, convincendo al punto da assumere sulle loro spalle giovani tutto ciò che di positivo e riuscito c’è nel film.