Presentato fuori concorso a Venezia 74, Piazza Vittorio è un documentario sulla piazza più multiculturale di Roma e forse d’Italia, girato con una ispirazione nettamente verista più ancora che realista, poiché intento a fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana, rappresentandone rigorosamente ogni aspetto, anche quelli più sgradevoli, quasi senza apparente mediazione. Non è una metropoli notturna e infernale la Roma che viene fuori dal documentario del regista newyorkese (di padre italiano) che più di ogni altro ha raccontato storie di peccato, redenzione, violenza. In questi 82 minuti, sono poche pochissime le scene girate di notte, nel buio metropolitano spezzato dai neon. Piazza Vittorio infatti vive soprattutto di giorno grazie all’ininterrotto vai e vieni dei variegati frequentatori che ne animano la quotidianità.

Come ha dichiarato il regista, il film non è stato girato con l’imposizione di una scaletta precostituita dei personaggi che si volevano intervistare, ma “siamo scesi in strada con la troupe e abbiamo ripreso le persone in cui ci imbattevamo giorno per giorno, casualmente vagando dalla zona Carità a Colle Oppio. Nel film ci sono quelli che abbiamo incontrato per caso in quei 5 giorni in strada a Pazza Vittorio”. Il cinema che torna in strada alla maniera pasoliniana, una delizia in questi tempi di fake news.

A detta di Ferrara, l’idea del film nasce con una naturalezza ontologica dall’io più spontaneo dell’autore, perché “quando vivo in un posto mi piace documentare il posto in cui sto, la mia ispirazione viene sempre da vicino casa. E siccome ho appena finito un film di fiction che si chiama Tommaso con Willem Dafoe ambientato sempre in Piazza Vittorio, ed è molto sottile la linea che separa il documentario dal cinema di finzione…ecco che arriva questo film”. Anche se, ha specificato meglio dopo il maestro, uno dei motivi principali per cui ha voluto girarlo “è stato quello di dare una voce a tutti”, anche a quelli che voce non hanno.

Ed ecco dove risiede la grande potenza di un “piccolo” documentario, girato con un budget molto ridotto, forse più per la necessità impellente di un autore di “esprimere la sua pulsione artistica” o di “guadagnarsi da vivere con la sua arte”, come lo stesso Ferrara spiega per inciso ad uno degli intervistati, che avendolo scambiato per un giornalista insiste a chiedergli di aiutarlo a trovare un lavoro. La forza di Piazza Vittorio sta nel fatto di esprimere singolarmente le voci di questi famigerati immigrati di cui la politica odierna ci fa tanto parlare e temere. È di tirarli fuori ad uno ad uno dal buio della generalizzazione, o della massificazione di un fenomeno di odio, che non lascia spazio alle singole identità.

La forza di Piazza Vittorio è la sua armonia, e per armonia intendiamo nel senso etimologico del termine, quello non di un suono solo e accordato, ma di più suoni diversi che armonicamente producono una voce sola. Le voci sono quelle di armeni, rumeni, ucraini, africani, cileni, cinesi, italiani del sud (gli immigrati di Basilicata, Calabria, Campania) che ad uno ad uno raccontano la propria storia e mostrano il loro profilo tanto umile quanto umano: il volto, le mani, i gesti, la riconoscenza per una Italia che li ha accolti “bene”, la simpatia. Accanto a loro anche i camei di alcuni immigrati illustri del cinema, Matteo Garrone che ha scelto di vivere in questa Piazza “perché voleva vivere all’estero”, o Willem Dafoe che sottolinea come viaggiando per il mondo “gli italiani siano dappertutto”, e dunque dovrebbero essere maestri di accoglienza e generosità. Sotto il profilo tecnico il documentario è confezionato con una grande varietà di forme di ripresa (alterna macchina da presa e smartphone), che lo rendono vivo e pulsante, insieme alle forme di “ripresa dal vero” miste a interviste e piccole jam session improvvisate.

In questa cornice costruita ad hoc da Ferrara per dichiarare il suo assai condivisibile pensiero, ossia che “l’immigrazione è una questione molto complessa, che non può esaurirsi con un semplice tweet come fa il mio Presidente Trump o il vostro Ministro dell’Interno”, trova spazio anche il discorso razzista e sovranista di Casa Pound, ripreso sotto il velo di una luce fredda e asettica (rispetto alla vivacità ed empatia con cui vengono affrescati gli immigrati) che davanti agli occhi di uno spettatore ormai conquistato dalla rappresentazione di Abel, non può che soccombere sotto la meschinità delle sue stesse affermazioni “L’Italia non può accogliere tutti…prima gli Italiani”. Come ha concluso il Maestro, “il fatto di essere anti-immigrazione è un controsenso in termini, un Paese come gli Usa, che sono fatti per definizione da immigrati, non può essere anti immigrazione e così pure l’Italia. Sarebbe come negare sé stessi”.

Leggi l’articolo anche su: www.cinefiliaritrovata.it