120 Battiti al minuto

Dopo la prospettiva insolita scelta da Dallas Buyers Club (6 candidature ai Premi oscar nel 2014 e tre statuette portate a casa), che metteva al centro di una storia di AIDS un texano omofobo convinto che la malattia fosse di appannaggio esclusivamente omosessuale, e il bellissimo e corale Pride di Matthew Warchus nel 2014, che ci faceva adorare il movimento LGBT schieratosi politicamente al fianco dei minatori inglesi e contro la Lady di Ferro, sicuramente mancava all’appello una pellicola che portasse alla luce gli anni di “oscurantismo” e sessuofobia subiti dalla comunità LGBT e dai malati di AIDS in Europa nei primi ‘90. Anni in cui il picco dell’epidemia di Aids (ed i morti) spinse i militanti di Act Up Parigi (associazione che richiamava l’attenzione sulla vita dei malati di HIV) a scendere in piazza e dare il via alla lotta per la diffusione di una cultura della prevenzione, contro i pregiudizi e l’ignoranza imperante.

120 battiti al minuto è senza dubbio il film che la comunità LGBT attendeva da tempo. Il film della riscossa, della narrazione di un tema che troppo a lungo ha sofferto del silenzio complice dei media. Diretto da Robin Campillo e interpretato tra gli altri da Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois e Adèle Haenel, il film è il candidato ufficiale della Francia per la corsa all’Oscar 2018 al Miglior Film Straniero. “Tutti i film che hanno parlato dell’Aids – ha dichiarato il regista franco marocchino – hanno raccontato storie individuali. Io volevo occuparmi del momento in cui le persone hanno scelto di fare un’azione collettiva contro il male, di mettere in scena un gesto politico che avesse un senso”, e infatti Campillo realizza un film corale dove centrale è la dimensione del gruppo, a discapito però dell’approfondimento di molti dei personaggi rappresentati. Nonostante questo, il film è stato premiato a Cannes con il Gran Prix della Giuria.

Volendo esprimere un giudizio complessivo ci troveremmo in imbarazzo a dover scindere il giudizio critico ed estetico da quello puramente simbolico.  Da un punto di vista simbolico infatti il film di Campillo coglie nel segno, e riempie un vuoto notevole ed insopportabile nella storia del cinema globale rispetto alla narrazione non solo del mondo omosessuale (in modo reale e ripulito dai topoi di genere, soprattutto nelle scene d’amore), ma anche e soprattutto delle lotte perpetrate per la conoscenza e la diffusione delle informazioni relative alla epidemia dell’HIV in Francia (come nel resto d’ Europa) negli anni ‘90. Dunque ottima la scelta dell’argomento, una necessità ‘generazionale’ invero, e la narrazione dei fatti.

Ma passando poi a un esame più analitico, dobbiamo ammettere che tante sono le scelte del regista non troppo apprezzate. In primis quella di un montaggio che non ha voluto favorire la sintesi e il ritmo (confezionando una pellicola di 140 minuti), ma che spesso ha indugiato in modo quasi ossessivo su particolari apparentemente insignificanti per la trama. Come, ad esempio, i lunghissimi e ripetuti minuti di “ballo” in discoteca, scanditi da immagini illuminate da luci strobos, che mettevano a dura prova l’equilibrio visivo dello spettatore. Abbiamo compreso solo a fine film che tali scene devono esser state ritenute fondamentali essendo legate ai 120 battiti del titolo (i 120 battiti al minuto appunto della musica Pop anni ‘90) ed alla transizione visiva dal sudore dei ballerini al vetrino della molecola di HIV visto al microscopio, tuttavia tale indugio ci è parso infinitamente eccessivo e snervante.

Esattamente come altri particolari che, in finale di pellicola, ci pareva potessero essere risparmiati allo spettatore: l’insistenza quasi morbosa sul cadavere di uno dei protagonisti, con annessi cerotti sugli occhi chiusi, e tutte le infinite litanie della morte. Un supplizio che si sarebbe potuto evitare. Infine il film intero, la sua azione principale, sono incentrati sulla dinamica dei dibattiti del gruppo di attivisti di ACT UP, dibattiti in cui nascevano le proposte di azione del collettivo, e da cui si dipanavano le storie dei singoli individui, storie il cui racconto però non giunge ad un approfondimento accurato, trascurando persino la caratterizzazione dei personaggi chiave, che quasi per caso diventano tali nello sviluppo della narrazione, o senza che lo spettatore ne assuma una piena consapevolezza.

Per tali ragioni il pubblico medio (probabilmente ancor più uno spettatore eterosessuale) potrebbe trovare una difficoltà oggettiva ad entrare in empatia con questo film e la sua storia ed a subirlo come un trattato, una esposizione verticale dei fatti, in aula. Il fuoco è sulla malattia. E siamo d’accordo con l’urgenza di doverla raccontare in modo non consolatorio, ma ammettiamo di aver sentito nostalgia di una forma di racconto hollywoodiano e melodrammatico delle vite dei protagonisti nel momento in cui si sono trovati in prima linea a viverla e a combatterla questa malattia.

Insomma se è vero che nel film il riscatto di Campillo sugli anni ‘90 è di esser riuscito a colorare la Senna di rosso sangue (come sognavano di fare gli attivisti di ACTUP), è anche vero purtroppo che non si è tinta dello stesso colore la nostra passione per la sua opera.

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